L’intervento del direttore della Caritas di Roma, monsignor Enrico Feroci, all’Assemblea Capitolina
Il mondo del lavoro e le realtà del volontariato, le imprese e i servizi pubblici, la cultura le università: sono stati tanti gli interventi in Aula Giulio Cesare in occasione della discussione aperta sul cosiddetto “Salva Roma. Il dibattito, che si è svolto il 18 marzo 2014, ha preso le mosse dalla relazione del sindaco Ignazio Marino sulle “Misure per il contenimento della spesa di Roma Capitale”.
«È mio dovere riportare in questa aula l’amarezza, che molto spesso si tramuta in indignazione, di tante persone per la carenza di risposte, per il dolore sordo presente nei loro cuori. Credo sia doveroso da parte mia aiutarvi perché la disperazione non si tramuti in atti inconsulti. Il primo passo quindi è la capacità di osservazione e di analisi, di aprire gli occhi». Così il direttore della Caritas diocesana, monsignor Enrico Feroci, ha aperto il suo intervento, uno dei primi dopo la relazione del sindaco Marino.
Monsignor Feroci ha ricordato le “drammaticità strutturali” e le “criticità emergenti”: la povertà delle famiglie, la frammentazione degli affetti, il sovra indebitamento, il disagio giovanile, gli anziani soli, i rom, le politiche di integrazione per gli immigrati.
«Ma quello che preoccupa ancor di più – ha ricordato il direttore della Caritas – è la crisi culturale e di valori che non è meno disastrosa di quella della povertà». Il sacerdote ha denunciato che «oggi si assiste ad una sorta di corruzione di quelli che erano stati i fondamenti dello sviluppo economico e sociale dell’ultimo secolo. Nel passato l’obiettivo chiaro, da tutti condiviso, era il miglioramento della tutela della dignità della vita delle persone, al contrario, oggi queste idee stanno pian piano mutando».
«Il cittadino – ha rilevato monsignor Feroci – lentamente dapprima si è trasformato in utente, e quindi è diventato un cliente. Cioè si sta trasformando e affermando una cultura che sostituisce l’interesse del singolo o di pochi al bene comune. Di conseguenza si perde la dimensione del servizio, del contributo per costruire la comunità». In questo contesto, ha spiegato il direttore Caritas, il contributo che la Chiesa può portare «non è tanto quello di un’offerta di servizi sociali o di supplenza alle carenze del Welfare», ma l’affermarsi di «una cultura del dono, da non fraintendere con una mentalità di assistenzialismo».