“Sull’educazione si misurano il nostro amore per il mondo ed il senso di responsabilità per il futuro” . Volendo ricercare il senso attuale dell’opera che indica l’insegnamento agli ignoranti come gesto di misericordia, trovo questa affermazione del monaco di Bose Luciano Manicardi – cui devo molto della riflessione seguente – bella e stimolante (Luciano Manicardi, “La fatica della carità”. Edizioni QuiQajon, Magnano (BI), 2010).
Nella grammatica della misericordia, in quali termini può essere intesa l’educazione e l’insegnamento? Quali sono le qualità di queste e quali cifre ne caratterizzano l’essere testimonianza della misericordia di Dio?
Nella prospettiva delle Opere di misericordia l’oggetto dell’educazione e dell’insegnamento è certamente la vita di fede e non solo una o più discipline o materie culturali, né l’istruzione tesa al mero apprendimento di prescrizioni e regole. Tutta la vita di fede necessità infatti di un insegnamento, di una trasmissione in cui il più esperto guida e istruisce il meno esperto.
Nell’antico testamento, come anche ai nostri giorni, le figure dei profeti, uomini di Dio spesso “controcorrente” e contro i potenti del tempo, si sono poste come educatori del popolo trasmettendo, in modo vitale, coinvolgente, empatico la volontà di Dio nelle diverse situazioni storiche. Nella scrittura Dio stesso è detto “maestro”; il maestro invocato dall’orante al quale chiedere indicazioni sulla via da percorrere nella vita; colui al quale domandare la luce necessaria per comprendere il suo volere nelle diverse vicende della vita e, così, divenire “sapiente”. Nella scrittura anche il semplice l’inesperto, l’ignorante è reso sapiente dalla conoscenza della volontà del Signore: “La testimonianza del Signore…rende saggio il semplice”, recita il Salmo 19.
Educare la vita di fede è dunque l’impegno da perseguire: conoscere e fare conoscere, senza manipolazioni, la volontà di Dio. Trasmettere la fede allora significa anche trasmettere le Scritture, dare la possibilità e gli strumenti per leggerle, ascoltarle, meditarle e pregarle nella fede e nello Spirito santo. In ogni tempo per i credenti, Gesù insegna a vivere. Ci insegna a vivere in questo mondo nella logica di Dio e del suo progetto di umanità, che si manifesta proprio in Gesù stesso. Gesù è il maestro! Così, la conoscenza nel credente è conoscenza interiorizzata, mentalità, atteggiamento, memoria di Gesù e decisione di esserne discepolo. Una conoscenza che si acquisisce non in modo individualistico; personale, certamente, ma dentro un contesto comunitario, ecclesiale appunto.
Se guardiamo l’esperienza di Gesù comprendiamo inoltre anche il modo di trasmettere la fede e far conoscere la volontà del Signore, di come essere insegnanti ed educatori. Egli insegna coinvolgendo la sua persona, in modo testimoniale. Insegna con la parola, con i gesti, con il suo modo di vivere. Con tutta la sua persona. La sua persona è insegnamento. Egli è la rivelazione piena della volontà di Dio! Chi vede lui vede il Padre, il suo progetto e la sua volontà. Gesù realizza se stesso attraverso la completa disponibilità a compiere un radicale spossesso di sé per vivere in favore del Padre: “ Il mio insegnamento non è mio , ma di colui che mi ha mandato (Gv 7,16). È dunque con lo stile di Gesù che possiamo rendere testimonianza alla misericordia del Padre; seguendo lui, e tutta la tradizione biblica, non possiamo che renderci conto che insegnare la vita di fede ha un carattere relazionale. L’educare si svolge e avviene secondo modalità narrative e dialogiche, non impersonali né dottrinali e astrattamente dogmatiche; si basa sulle esperienze e sulla vita con la capacità di narrarle interpretandole alla luce della Parola. Una modalità intensa e faticosa che coinvolge dunque il narratore e il destinatario della narrazione, l’esperto e il meno esperto, entrambi presi dentro la narrazione e resi partecipi della storia narrata.
Come attuare oggi tutto questo, in una società dove la trasmissione della fede trova molte difficoltà, perché fatica a dare significato a gesti e parole che le generazioni precedenti ci hanno consegnato. Ma proprio in questo tempo, dove ogni azione deve incessantemente essere motivata e dialogicamente significata, riscopriamo allora che insegnare significa “fare” e “dare” segni, trasmettere simboli vitali e colmi di esperienza condivisa, mediante cui orientarsi nella vita; stare dentro le storie, sia quelle individuali e che comunitarie, capaci di scoprire in esse la via fedele alla Parola, ma senza imporre una legge.
Saranno dunque le nostre esperienze di solidarietà e di aiuto ai poveri di Roma che le comunità dei credenti realizzano capaci di essere segno, di divenire simboli per orientare la vita, per richiamare chi cerca la via e per sviluppare, anche nelle nuove generazioni, scelte di vita autenticamente evangeliche?
Pensandoci mi torna in mente la figura e l’esempio di don Lorenzo Milani: la sua “scuola popolare” ed il programma di “educazione civile” con cui egli intende dare parola agli analfabeti e dotare delle risorse del linguaggio quei piccoli residenti di un paese sperduto sulle montagne del Mugello, condannati dal resto della collettività e dalla scuola di allora a replicare la vita dei loro nonni, senza alcuna possibilità di accedere ad altro. Quell’esperienza pastorale è stata l’espressione della fedeltà di Lorenzo Milani alla volontà di Dio e la sequela di Gesù nella difficile situazione in cui si era trovato. Il suo fu un impegno totale, a totale disposizione dei ragazzi e del loro futuro. Da quella sua (loro) esperienza continuiamo ancora oggi a pensare che c’è molto da attingere a cominciare da quell’atteggiamento sintetizzato dall’I Care! (mi interessa!). Possiamo ancora oggi, noi, tornare a chiedercicon passione: educare con tutto noi stessi, ci interessa?
Fabio Vando
Area Promozione umana