Una notte buia e tempestosa…come nei film
Ore 23.15. Appena rientrata a casa, ho bisogno di scrivere per paura di dimenticare i milioni di dettagli che sono riuscita a raccogliere.
Era giovedì grasso e, come succede da anni, nemmeno me ne ricordavo se non perché durante la pausa pranzo, come buona educazione impone quando qualcuno apre le porte della propria casa invitandoti ad entrare, friggevo con mia nonna frappe di ringraziamento per la serata.
Uscita di casa stasera, con il dolce preparato e quasi vinta dalla stanchezza della giornata, pensavo a come, poco dopo, mi sarei potuta permettere di entrare a casa di qualcuno che non mi aveva mai conosciuta né vista prima, come fossimo amici.
Davanti al cancello di Santa Giacinta, mentre aspettavo, mi sentivo come probabilmente deve sentirsi chi sta per imbucarsi ad una festa, sensazione, data la mia ritrosia e riservatezza, in realtà mai provata. Ma già mi vergognavo e mi sentivo così invadente!
Mi vergogno a tal punto che porto volentieri uno scatolone di viveri emergenziali che la Caritas riesce a fornire alla famiglia, ma non il mio piccolo presente culinario che lascio nelle mani degli altri.
Entrando nel vicolo buio con la maggior parte dei sanpietrini saltati, al secondo cancelletto traforato la prima ad accoglierci è Lilli, una piccola e spelacchiata cagnolina nera che riempie da subito quella, già a colpo d’occhio, piccola e cadente casa.
Quel che vedo, prima di ogni altra cosa, è una famiglia: prima del disordine, prima dello spazio, prima delle mancate condizioni igieniche e di sicurezza. Vedo un piccolo cane con le movenze da gatto e una coppia che, credetemi sulla fiducia, farebbe invidia ai Vianello.
Scusandomi di getto per aver invaso quel momento serale in cui tutte le famiglie si raccolgono, trovo subito riparo nel sorriso spensierato di Gabriella tanto da buttarmi letteralmente, senza conoscerla, tra le sue braccia. Seduta nella sua imponente poltrona rossa, unico imponente elemento d’arredo della casa, emana a profusione infinita dolcezza ed ingenuità.
Subito Franco, come immagino qualunque buon padrone di casa (come “casa” anche “padrone” in fondo non so se sia il termine appropriato), si fa posto tra le sedie incastrandole tra loro come giocasse a tetris per raggiungere il frigorifero ed offrirci la bibita acquistata per l’occasione.
Che ospitalità, da imbucata divento, in qualche mossa di tetris, ospite d’onore!
Franco, tra un punzecchiamento e l’altro con Gabriella che ride, ride sempre, ci invita uno alla volta, dati gli spazi, a vedere casa e borbottando racconta degli impegni, delle dimenticanze della moglie, delle faccende di casa, dei nipoti e, mentre salto da una stanzetta all’altra, lo sento ironizzare sulla decadenza della casa di un ex saldatore.
Ci sono solo tre sedie per quattro persone e Franco, così ospitale che continua ad invitarci a bere qualcosa mentre assaggiamo le frappe per cui Gabriella ancora manda i saluti a mia nonna, rimane in piedi e decido di seguirlo e lasciare per tutta la serata una sedia libera mentre guardando l’instabile lampadario di fortuna penso a cosa voglia dire fermare tutta la propria vita per dedicarla ai bisogni di un’altra.
Se voglia dire rubare l’aria calda da terzi, vedere le stelle da una macchia di umidità sul soffitto, isolare gli ambienti con finestre improvvisate e nastro adesivo da pacchi.
Sulle stesse note di qualsiasi altra coppia conosciuta che battibecca per chi dorme di più e russa più forte penso a quanti omoni dalle grandi mani sarebbero stati disposti a barattare quasi la dignità e vivere in tanta miseria e malattia per quella che sembra essere semplicemente una dolce bambina.
Il grande uomo apparentemente burbero e pungente può essere lo stesso che ogni giorno lava, cucina, stira e, per necessità, impara a cucire mentre accudisce la sua signora e porta fuori la vivace cagnolina?
Mentre ci accompagna al cancello, salutata la tenera Gabriella, ho la stessa voglia di riorganizzare che ho quando si conclude una serata tra amici.
Ma chiusa la porta di quella casa dimenticata, non posso fare a meno di chiedermi se qualcun altro a parte noi è cosciente delle condizioni in cui si può vivere o sopravvivere e se c’è un limite perché un ambiente possa essere chiamato casa senza ledere la dignità di una famiglia.
E chiusa la stessa porta e spente le luci, sorrido pensando che, vista l’ora, forse stanotte Franco non sarà costretto a svegliarsi prima dell’alba per aprire la finestra e dimostrare a Gabriella che fuori è ancora buio e possono godersi ancora per un po’ quello che sicuramente non è un comodo letto, caldo, profumato ed accogliente.
Quando erroneamente pensavo che la peggior condizione umana fosse vivere e dormire per strada, ecco che faccio i conti con un’altra realtà.
Pensavo che di ritorno da questa mia nuova esperienza avrei iniziato col scrivere “Era una notte buia e tempestosa” (cit. Edward Bulwer-Lytton, Paul Clifford, 1830 o, più comunemente, Snoopy) e invece ho trovato la luminosità del viso di Gabriella, del penzolante lampadario e delle gocciolanti stelle di quella macchia di umidità sul soffitto e, poco dopo, avrei incontrato, ancora, la serenità nelle parole di un simpatico “barbone” veneziano.
Via Nazionale, piazza della Repubblica.
Seguo gli altri compagni di avventura quando vedo da lontano un divertente ragazzone dal viso tondo che passeggia guardando le vetrine illuminate dei negozi vicino ad un mucchio di coperte e un manifesto: MEGLIO BARBONE CHE LADRO.
Ci accomodiamo a gambe incrociate come in un quanto mai attuale modaiolo sushi bar, ma appena iniziamo a parlare non è più la strada e non c’è più scomodità: siamo in un caffè letterario a discutere di movenze e gestualità, del nostro linguaggio del corpo, di cinema, teatro, architettura. E Roma che ci fa da sfondo ricorda a Jesus perché ha scelto proprio la città eterna come casa. Mi chiedo infatti cosa ci faccia un veneziano a Roma, sembra quasi il titolo di un corto, e considerata la conversazione non mi faccio troppi problemi a dirlo ad alta voce.
Pare che il chiasso dei romani sia loro croce e delizia, Jesus infatti oltre ad essere innamorato, come tutti, della storica città sa apprezzarne la schiettezza degli abitanti suoi coinquilini, probabilmente la stessa che lo porta a scrivere di quei manifesti.
E così mentre io racconto dei miei studi e i miei due fidi compagni discutono sull’ultimo film visto, Jesus condivide con noi la sua idea di traslocare in un’altra zona e ci invita immediatamente a tornare a trovarlo ancora e ancora. Quando ci salutiamo e provo a trovare una definizione che renda onore a quel momento stimolante e rilassante al tempo stesso, mi viene in mente una sua frase con cui descrive l’imponenza di Roma: elegante ma non snob.
Elegante ma non snob come la location in cui ci siamo accomodati, fronte piazza della Repubblica incorniciata dal monumentale porticato e illuminata dalla calda luce gialla dei lampioni.
Elegante ma non snob come Jesus con il suo piacevole accento mentre racconta del suo passato nella cinematografia.
Elegante, contro ogni previsione, come i suoi modi pacati e coinvolgenti.
Elegante come quando ammette che per sopravvivere ad alcune perdite nella vita ci vuole forza, elegante e non patetico ma consapevole.
Così di tempestoso ricordo solo quella sbagliata citazione che pensavo mi sarebbe tornata utile, perché camminando sotto quelle stesse calde luci dei lampioni mi porto la serena consapevolezza che stasera ho trovato tre amici in più per cui vale la pena osare. Rischiare di bussare, di entrare, di farsi coinvolgere e guardare il chiaroscuro, cosciente e consapevole che i margini di azione sono relativi. Che la tua potenza è la voce e poco altro.