Covid-19 e povertà educativa: stare a casa non è per tutti

Quante volte in passato abbiamo detto a noi stessi e agli altri: «Se potessi stare un po’ a casa, riposarmi senza fare niente, solo per poter stare con me stesso!». Non avremmo mai immaginato che presto si sarebbe prodotta questa situazione, per coercizione. Tuttavia i “domiciliari” coatti per causa del virus ci stanno portando consapevolezze nuove, alcune facilmente prevedibili, altre un po’ meno.

Una prima presa di coscienza riguarda quelli che nel Rapporto povertà Caritas di quest’anno abbiamo chiamato “equilibristi della povertà”: persone con entrate economiche minime, per lo più precarie, che abitano magari in quattro, cinque persone in monolocali senza nemmeno un balcone. Malgrado gli sforzi governativi queste persone si trovano ora a vivere una domesticità h24 ad alto coefficiente di stress. I   bambini in età scolare di queste famiglie vengono di fatto esclusi dai piani formativi telematici approntati per questo periodo dalle istituzioni (senza neanche potersi rivolgere ai compagni di scuola) in quanto non aventi accesso a un pc. Povertà educativa che si sommerà a quella economica. Pensando a queste ampie fasce di povertà, sarebbe bello se molti opinionisti che oggi affollano le tv a tutte le ore – per parlare  di quanto sono abili a costruire momenti di gioia nella domesticità – avessero la sensibilità di non ostentare il benessere in cui hanno la fortuna di vivere e si adeguassero a codici espressivi più attenti  al fatto che domesticità non vuol dire per tutti la stessa cosa; se per una famiglia benestante con un ampio e comodo appartamento c’è solo il problema di inventarsi  passatempi gratificanti – scoprire letture, giochi, rapporti vitali con i figli -, per chi vive in spazi ristretti, se non angusti, poco illuminati e areati, la domesticità coatta può diventare una sfida nella sfida. E’ vero, il virus è uguale per tutti; si può vivere in maniera ben diversa secondo la condizione di vita sociale, economica, formativa.

Un altro tipo di consapevolezza riguarda la qualità delle relazioni familiari: tra i due genitori, tra genitori e figli. In questo caso le condizioni socioeconomiche c’entrano fino a un certo punto: si registrano conflitti familiari, rapporti di insofferenza anche nelle famiglie più benestanti. E, davvero, una convivenza forzata tra persone che normalmente si sopportano a mala pena può essere una prova devastante.  Non a caso in questo periodo associazioni che si occupano di prevenire la violenza sulle donne si rendono, attraverso campagne comunicative, più visibili.

Per quanti hanno la fortuna e/o il merito di godere di relazioni familiari serene, invece, si può davvero pensare a questo tempo sospeso come un tempo profondo di arricchimento, per esempio coltivando sentimenti di gratitudine per tutto quanto ci è stato concesso da Dio (o dalle circostanze della vita, per i non credenti). Gratitudine che può trasformarsi in un’energia di bene, in un’attenzione più vigile agli altri e alle loro esigenze inespresse, siano essi familiari o semplicemente i vicini della porta accanto. Un tempo che trascende la quotidianità frettolosa cui siamo abituati da sempre e che, in questo senso, può diventare segno e testimonianza.

Ricordiamo sempre che, sebbene in questi giorni tremendi possiamo sentirci sconfortati, isolati, anche questa pandemia passerà.

Nel processo di futura costruzione di un mondo nuovo, umanamente migliore, illuminato da fede rinnovata, si può dire che le donne e gli uomini dei nostri tempi hanno soprattutto bisogno di vivere la fede attraverso la concretezza, di esempi, modelli di vita e amore fraterno.

Elisa Manna
Area Studi e Comunicazione