Una rubrica realizzata dai volontari e dagli operatori del servizio domiciliare “Aiuto alla persona” per ricordare e denunciare le morti di tre anziani emarginati che vivevano nascosti nelle loro case sporcizia e abbandono.
La situazione dei poveri, delle persone fragili, degli anziani, e degli “ultimi” sta sempre più peggiorando all’interno del nostro paese. Le continue crisi economiche, l’indebolimento sempre più marcato del tessuto sociale, la pandemia e una società sempre più egoista hanno accentuato la povertà, il bisogno e soprattutto la solitudine. Tutto ciò è ancora maggiormente percepibile nelle grandi città, in cui problemi antichi si mescolano più velocemente e più profondamente con problemi attuali. La nostra città, Roma, non è diversa dalle altre; anzi, viste le sue dimensioni, il numero di persone che la abitano e l’estrema eterogeneità delle stesse, può essere indicata come un ottimo metro di giudizio della situazione generale. Come operatori della domiciliare della Caritas di Roma ogni giorno ci troviamo a fare i conti con i problemi sopra descritti. Conoscendo bene la disperazione di certe condizioni limite dell’esistere e potendo cogliere da un lato un continuo peggioramento delle stesse e dall’altro la nemmeno tanto nascosta indifferenza verso tali circostanze, abbiamo deciso di intraprendere un percorso di emersione e sensibilizzazione, quasi una denuncia dello stato delle cose, nella speranza di poterle cambiare insieme attraverso una sensibilizzazione maggiore rispetto alla realtà che tutti viviamo.
Non volendo ricoprire il mero ruolo di segnalatori di salme, abbiamo deciso di proporre delle testimonianze scritte su quelle morti. Riflettere sulle situazioni che le hanno rese possibili e riflettere su quello che tali morti avevano lasciato a noi stessi, come persone, prima che come professionisti.
Quando ero più giovane mi sentivo invulnerabile e l’argomento della morte era lontano da me anni luce. Ero forte e sano e mi ammalavo raramente. Perché avrei dovuto pensare alla morte?
In età adulta il mio corpo ha iniziato a non funzionare più bene: prima il diabete nel 1994 e poi la colite ulcerosa nel 2014. Quest’ultima è stata terribile, perché nel lungo periodo in ospedale, più volte ho sentito vicino a me la presenza della morte. La cosa bizzarra è stata che io non avevo paura di Lei. Non l’ho mai temuta per me stesso. Perché nonostante la debolezza del mio corpo, avevo con me una grande energia spirituale. Sentivo che il mio corpo, afflitto dalle trasfusioni, attaccato alle flebo e alle sacche per la nutrizione parenterale, dimagrito fin quasi a vedere la forma del mio scheletro, sarebbe guarito e che sarei tornato ad avere una vita normale. Probabilmente è stata questa forza, la forza nella fede della guarigione, che lentamente ha allontanato da me la morte. Almeno per ora.
Quando ho iniziato a riflettere sulla morte di Mauro, una persona che ho seguito per mesi nel mio lavoro di operatore alla Caritas, ero stimolato ma allo stesso tempo contrariato. La riflessione sulla morte di una persona con cui ho avuto un legame, inevitabilmente porta al dolore della sua perdita. Inevitabilmente porta anche al dolore di tutte le perdite della mia vita, particolarmente quella di mia madre prima e di mio padre poi.
Sono una persona che ha bisogno del contatto fisico con gli altri a cui voglio bene. Lo sguardo negli occhi dell’altro, la stretta di una mano vigorosa, l’abbraccio, il toccare la spalla dell’altro e nel caso dei miei genitori, baciarli e sentire il loro odore, tutti elementi che sono venuti a mancare quando loro sono morti. Il fatto di non poterli più vedere, sentire, parlarci, questo è stato ed è il dolore più forte.
Con mio padre ci litigavo, soprattutto da adolescente ed eravamo su lunghezze d’onda differenti anche da adulti, ma la sua morte, anche se aveva 90 anni, anche se i miei fratelli ed io ce lo aspettavamo da tempo, ha creato un enorme vuoto in me. Una voragine fatta di tristezza e malinconia. Anche di rabbia, perché lui ad un certo punto aveva deciso di voler morire senza più combattere.
Parlare della mia morte, non mi crea dolore. Parlare della morte delle persone con cui ho stabilito un legame o peggio ancora, con cui sono molto legato, si.
Mauro era di qualche anno più giovane di me. Fin dal primo giorno in cui sono entrato nella sua vita, mi ha parlato del suo passato turbolento nel suo quartiere popolare ai confini tra borgata Fidene e la Serpentara. La sua vita in un ambiente “difficile” e della Roma degli “anni di piombo” in cui era netta la differenza tra l’essere di sinistra e l’essere di destra, tra l’essere cattolico e il non esserlo, ha portato Mauro a manifestare comportamenti devianti e ad allontanarsi dalla sua famiglia, soprattutto dopo la perdita del padre. La madre si era trovata un altro uomo, un poco di buono a detta di Mauro e i suoi fratelli più grandi non sono mai stati presenti nella sua vita. Forse solo con uno dei due aveva mantenuto nel corso degli anni un certo contatto, ma dopo la morte della madre, niente più.
Nel corso degli anni, Mauro aveva approfondito da autodidatta, un rapporto con la religione caratterizzato da una cosmogonia e da una riflessione sull’Universo e sull’umanità che non trova nessuna correlazione con il pensiero cattolico/cristiano, ma più con una visione delle cose direi visionario. Per certi versi Mauro sembrava un profeta. Forse qualcuno in maniera schematica e sintetica potrebbe definire Mauro come uno schizofrenico con delirio mistico. Io ho trovato le sue dissertazioni sull’essere umano, sulla sua evoluzione a partire dal primo soffio divino, la prima scintilla divina fatta brillare dentro di lui, semplicemente fantastiche e stimolanti.
La sua casa era molto sporca e in disordine. Il nostro progetto era quello di dargli una sistemata. Mauro aveva problemi di salute di varia natura, per cui prendeva diversi farmaci: antidolorifici e psicofarmaci in primis. Aveva una brutta ernia ombelicale e soffriva di diverticoli. Aveva sempre le gambe gonfie e spesso di notte non riusciva a dormire. Nel suo progetto c’era anche il fatto di ricoverarsi in ospedale per farsi “rimettere a posto”. Rimandava continuamente i progetti che avevamo concordato. Per lui erano importanti la relazione con me e il disbrigo di pratiche di vario tipo tra cui fare la spesa, perché ormai non usciva più di casa e si era isolato dal mondo esterno. Aveva due grandi problemi da risolvere nell’immediato: il debito accumulato negli anni con l’affitto all’Ater e la soluzione con l’ente erogatore dell’energia elettrica. Risolti questi due, avrebbe considerato gli altri.
Quella mattina del 25 novembre del 2021, tutto mi sarei aspettato fuorché Mauro fosse trovato morto nel suo bagno.
Quando sono arrivato al portone del suo palazzo, ho suonato insistentemente al citofono, ma niente. Riesco a salire fin davanti alla sua porta di casa e suono ripetutamente il campanello, picchiando con la mano alla porta e chiamandolo energicamente. Nessuna risposta. Lo chiamo al cellulare, purtroppo invano. Per auto-consolarmi ed offrirmi una “scappatoia” emotivamente più sostenibile rispetto alla peggiore idea che gli fosse successo qualcosa, mi sono detto che Mauro proprio quella mattina, avesse deciso di uscire di casa, senza portarsi il cellulare.
Sono andato al suo Mini Market di fiducia per avere informazioni, ma il ragazzo che spesso andava a portargli la spesa, non lo vedeva da qualche giorno. Il sospetto che a Mauro fosse successo qualcosa si faceva sempre più spazio in me e dopo aver sentito i vicini di casa, ho deciso di chiamare il 112.
Non sto a dilungarmi sui dettagli di quello che è successo dopo, perché da quando i Vigili del Fuoco sono entrati in casa sua e lo hanno trovato morto nel suo bagno, c’è stato tutto un susseguirsi di persone tra ambulanza, Carabinieri e vicini che non si sono mai visti prima, che facevano domande e che piangevano e dicevano come poteva essere successo, dimostrandosi affettuosi e amorevoli, pur non essendosi interessati minimamente a lui per diversi mesi.
Il mio dolore più grande di quella giornata e che ancora mi porto dentro è stato il fatto che Mauro era morto già da qualche giorno e che questo accadimento è successo in totale solitudine. Della mia morte, quando sarà, l’unica paura è proprio il fatto di non voler essere da solo quando succederà.
Adolfo Scornajenghi
operatore domiciliare della Caritas di Roma