ANDARE
Il cammino si apre camminando. Con questa certezza insistiamo a raccontare la possibilità di costruire la pace. Con la sola cosa che crediamo valga la pena fare: camminando, cercando di aprire sentieri un po’ abbandonati per riscoprirne l’unicità e la bellezza. “Operatori di pace” allora vuole essere il compagno di viaggio di questo cammino. Un luogo dove si incontrano esperienze, speranze, fatiche e visioni. Un luogo aperto a tutti coloro che sono in cammino fiduciosi che solo questa sia la possibilità che abbiamo. Camminare. Con costanza e pazienza, ricordandoci la meta, narrandoci le nostre storie per intrecciarle con altre perché diventino una storia sola. Accogliendo compagni di viaggio non con il fastidio di difendere le nostre piccole comodità ma con la consapevolezza che solo il condividere trasforma la fatica del cammino nella capacità di cogliere il senso profondo del nostro andare. Cha sia un cammino lento ma costante, aperto al mondo ma capace di cogliere le sorprese del quotidiano, capace di fermarsi ma pronto a ripartire, consapevole che la pace è un meta lontana ma forse proprio per questo una delle poche per cui vale la pena alzarsi e andare.
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BARBIANA
L’esperienza di Don Milani ha un aspetto che affascina non solo per la forza e la lucidità della sue visione educativa. La sua capacità di scegliere un percorso di servizio liberante e proiettato nel futuro è evidente. Quello che non sempre viene sottolineato è come tutto questo nonostante sia avvenuto in uno sperduto paesino del Mugello abbia avuto una rilevanza e un impatto tale da provocare e interrogare, ancora oggi in termini di contenuti e di metodo, i nostri tentativi di vivere una cittadinanza responsabile. A Barbiana la scuola era una scuola che affrontava i temi con coraggio e onestà. Non si fermava ai titoli, agli slogan e alle soluzioni facili. Si preoccupava di far crescere cittadini responsabili. Non si educa senza entrare in relazione con la storia della che si incontrano. E’ l’incontro che genera nuove storie e nuove visioni. Don Lorenzo e la scuola di Barbiana sono lì a dirci che quando questo avviene, in qualunque posto questo avvenga, si avvieranno processi capaci di rendere le persone libere, solidali e responsabili. E su questa memoria abbiamo la certezza che vale la pena costruire il nostro futuro.
Tra le varie opere che raccontano le esperienza di Barbiana, vi segnaliamo il documentario “Barbiana ’65: la lezione di don Milani” di Alessandro D’Alessandro, l’unico in cui compaiano filmati originali con lo stesso don Lorenzo Milani.
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BUONI PROPOSITI
Ogni inizio attività viene sostenuto da sacchi pieni di buoni propositi. Noi non ne abbiamo di nuovi. Anzi, vorremmo che i propositi che hanno alimentato in questi anni la nostra preoccupazione per la Pace rimangano sempre gli stessi.
Una attenta lettura dei fatti, una buona dose di progettualità, una coerenza credibile per definire ciò che vogliamo e per accettare quel poco che riusciamo a fare, un rifermento continuo a una visione della Pace che ha a che fare con la giustizia e la dignità di ogni persona, una decisa volontà ad annunciare che la Pace è l’unica via possibile per vivere un presente che sappia guardare il futuro, un dialogo continuo con chi nei propri territori crede e vuole che la pace diventi possibile.
Da tempo in questa ricerca siamo accompagnati da parole forti o, più semplicemente, da qualche alibi in meno; con grande vigore e con grande lucidità papa Francesco ci richiama a una coerenza con la Parola di Dio che non può mercanteggiare né idee né azioni di fronte alle nefandezze della guerra, al ripudio della dignità in nome del mercato, all’irresponsabilità con cui trattiamo il creato e all’egoismo miope con cui ci relazioniamo con i più poveri della terra.
Niente buoni propositi. Come sempre solo lavoro costante, quotidiano, fiducioso e paziente per vivere con responsabilità la nostra vocazione ad essere “operatori di Pace”.
CONOSCERE
Le guerre si annidano nella nostra paura dell’altro e nel desiderio di schiacciarlo. Per motivare tutto questo dobbiamo in qualche modo catalogare l’altro come nemico; in questo modo abbiamo chiaro chi è, possiamo semplificare la relazione e sapere cosa fare. Se l’altro è nemico non dobbiamo pensare; un nemico va combattuto e possibilmente vinto. Semplice.
Costruire invece percorsi di relazione per gestire i problemi è più complicato: l’altro può essere amico, collaboratore, diverso, alleato, complice. Può essere semplicemente l’altro, con tutte le sue manifestazioni, la sua storia e la sua visione della vita. E per conoscere tutto questo e coglierne la ricchezza ci vuole fatica, tempo e passione. Una modalità di lavoro che implica non solo mirare e sparare spazzando via la vita, ma accoglierla e custodirla; anche se non è vissuta come noi vorremmo.
E’ uno dei motivi per cui la guerra viene comunicata e capita subito: la guerra si vende bene, sia come notizia che come modalità di risoluzione dei problemi; perché è semplice, diretta, intuitiva, non complessa. Proprio come vorrebbero farci credere sia la politica. Forse è per questo che tutte e due oggi manifestano l’assenza di qualsiasi speranza di relazione e di progettualità. Perché non si vuole fare fatica di capire che siamo indispensabili gli uni agli altri.
Noi abbiamo maturato la consapevolezza che si può essere uomini e donne di pace solo “con il sudore delle fronte”. E abbiamo imparato che le scorciatoie non hanno mai funzionato. E ci siamo resi conto che i nemici sono spesso inventati. Per questo cerchiamo di stare attenti e non ci stanchiamo di conoscere.
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DISEGUAGLIANZE
Tutto quello che intercettiamo ci dice che viviamo in un mondo di diseguali. Qualcuno sostiene che è sempre stato cosi; forse, ma non lo accettiamo come elemento consolatorio.
Il problema è che continuiamo ad affrontare temi che appartengono alla categoria delle conseguenze e colpevolmente fingiamo di non conoscere le cause. E quando le mettiamo in luce poi, con la naturale accettazione con cui accogliamo le stagioni, le lasciamo in un angolo perché in fondo dovremmo dirci che, a monte di questa disuguaglianza, ci siamo noi con la nostra visione del mondo e della vita. Senza una profonda consapevolezza che la disuguaglianza si alimenta in una strategia di accaparramento di risorse e di ricchezza da parte di chi la vuole difendere a suo vantaggio e di relativa esclusione di che ostacola questo processo, ci mancherà sempre uno sguardo profondo per leggere la storia nel suo contorto e allo stesso tempo lineare svilupparsi. E infliggiamo una penosa considerazione a noi stessi in questo perderci in problematiche faziose per accantonare quelle che ci possono invece aprire faticosi sentieri di liberazione.
Di certo il percorso è più impegnativo e esigente. Ma è nella scelta di questi percorsi che prende vita la testimonianza e l’impegno verso quelle visioni di giustizia che per molti meritano di essere vissute.
Chi come noi è in cammino, ha il dovere di usare cuore e cervello per saperle individuare.
Ti invitiamo a leggere il rapporto OXFAM “Time to care – Avere cura di noi” pubblicato alla vigilia del meeting annuale del World Economic Forum di Davos dello scorso gennaio, dove sono evidenziate le elevate e crescenti disuguaglianze di oggi.
https://www.oxfamitalia.org/
Da piccoli saltavamo ovunque; sui sassi e sulle corde, sui mucchi di fieno e sugli ostacoli disegnati per terra Saltare era il modo normale con cui ci si muoveva. Poi abbiamo cominciato a preoccuparci più di noi che di quello che potevamo vivere e abbiamo cominciato a evitare movimenti bruschi e poco educati. E nella rassegnazione ci siamo incamminati verso il mondo degli “speriamo di non cadere”. Qualcuno dice che il primo passo mette paura perché è sempre un salto nel vuoto. Forse per questo delegare il pensiero e stare fermi dà più sicurezza. Avere ricette già pronte e frasi già fatte anche. Saltare è invece la possibilità che ci diamo per tentare di andare oltre. Rischiando certo; temendo di cadere o di non riuscire, sollecitando il giudizio e considerando la possibilità del fallimento. Lavorare per la pace fa parte dei salti un po’ incoscienti che sfidano le logiche che tolgono il respiro alla nostra ricerca di Vita. Si passa dal Calvario e bisogna scendere nel profondo di un sepolcro, ma Gesù di Nazareth risorge dalla morte, ci porta la Pace e ci dice che si può fare.
APRIRE
Aprire una porta è accogliere una novità. Per quanto pensiamo di esserne capaci, sappiamo che è saggio aspettarci il nuovo perché il nuovo, in tutti i casi, arriverà.
Una porta che si apre accogliendo la sfida della Misericordia stravolge la ricerca delle buone maniere per arrivare all’essenza dell’ospitalità. L’accoglienza della persona nella sua totalità non si può ridurre al tempo dedicato ad una chiacchierata di circostanza. Aprire le porte alla Misericordia non è solo donare quello che abbiamo in più, ma fare sedere alla propria tavola; non è solo offrire un aiuto, ma condividere il cammino; non è solo rispettare le opinioni, ma capire la ricchezza della diversità; non è solo ascoltare le difficoltà, ma dialogare nella ricerca della verità. Aprire le porte significa spogliarci delle nostre certezze e lasciare che i segni seminati nella nostra casa narrino la nostra storia. Senza paura. La storia probabilmente prenderà altre forme e incrocerà altri racconti. È un rischio, ma almeno eviteremo di aprire le nostre porte per mostrare solo soprammobili vecchi e impolverati. Vivere la Misericordia è ribaltare completamente le logiche con le quali leggiamo oggi la storia. È vederla con gli occhi delle persone e non con l’elenco delle cose da fare. È semplicemente accogliere l’invito di Gesù di Nazareth ad amare fino in fondo tutti i nostri nemici. Tutti.
INFORMARE
E’ una grande responsabilità. E per farlo ci vuole serietà, competenza e onestà. Si dovrebbe informare per aiutare a pensare, perché si sappia che cosa succede, per dare ad ognuno la possibilità di capire, di scegliere e di decidere. Ma non sempre è così. Anzi quasi mai è così. Sempre di più si informa per manipolare, per convincere, per spaventare. Tutto in nome di un appiattimento di pensiero sul quale si può costruire una società che invece di aprirsi alza muri e barriere e invece di guardare il futuro si inventa un passato nostalgico e senza vita nel quale rifugiarsi. Allora informarsi diventa una nostra responsabilità senza scusanti; studiare e capire ci permette di vivere la complessità da cristiani presenti e da cittadini responsabili. Diamoci del tempo per sapere. Nascondersi dietro una informazione approssimativa e inutile mette in discussione la nostra dignità e ci fa perdere di vista quella degli altri
NARRARE
Non è la tentazione di perdersi nel ricordo nostalgico di ciò che era, ne l’abbandonare la vita da vivere per compiacersi o rimpiangere la vita che si è vissuta. Narrare è anzitutto un cammino, non verso il fuori di noi ma verso il più profondo dentro di noi. E’ la richiesta che facciamo a noi stessi di essere noi stessi. Quando cominciamo a narrare iniziamo a riconoscere ciò che ci ha fatto diventare quello che abbiamo voluto essere, ad accoglierlo e a custodirlo.
Ma il desiderio di raccontarsi non è un esercizio sterile che punta all’ isolamento, incapace di accorgersi della vita. Non ha niente a vedere con la malinconia, ma è frutto di un percorso solido e voluto che si confronta con il profondo della nostra anima. Narrare non appartiene alla dimensione personale; narrare è il frutto della fatica che facciamo quando usciamo dalle quinte per rimettertici in gioco, senza temerci e senza temere. Per questo nella misura in cui questo confronto diventa sempre più autentico è vitale l’esigenza di conversare con altre narrazioni e altre storie. Narrare ha a che fare con una comunità , con il dialogo, con l’accoglienza, con la pazienza. Si esprime nella semplicità e nella pacatezza ma allo stesso richiede il coraggio di rileggere fatiche ed esperienze; religiose, personali, politiche, di cittadinanza. Affidandoci al narrare ci apriamo alla fiducia e il nostro racconto diventa uno dei molti racconti che rendono la storia di ognuno la storia di un popolo.
INTERCULTURA
Intercultura è la parola della precarietà. È la sfida tra quello che c’è e quello che ci dovrebbe essere. Ha il grande merito di avere cancellato l’ambiguo concetto di tolleranza che tagliava il mondo il mondo tra chi tollera e chi deve essere tollerato. Prospettiva terribile.
Intercultura invece si muove tra il già e il non ancora, tra un mondo che è come è e un mondo che è come vorremmo che fosse. Prendersi la cura di disegnare mappe diverse da quelle che ci sono state consegnate è un rischio difficile da calcolare. Stanco di cartoline vendute a mazzetti e tutte uguali il viaggiatore che sceglie l’intercultura ha la possibilità di disegnare paesaggi nuovi e di scoprirne altri. Non si ferma al chiosco posto all’inizio del sentiero a fare incetta di souvenir tutti uguali. Si incammina senza con passo spedito, sapendo che si potrà perdere e che dovrà fare i conti con la stanchezza; in tutti casi sarà protagonista di un’avventura vera fatta di scoperte in grado di renderci più umani.
L’intercultura non si fa, si vive, è una dimensione che non si accontenta della compresenza bensì cerca il confronto e l’interazione anche a costo di scatenare conflitti che con le dovute competenze si possono gestire e attraversare nel rispetto della dignità di ogni persona.
L’intercultura non è un cosa per specialisti: è accettare la sfide della vita senza pregiudizi e con l’animo libero in grado di accogliere storie e ricchezze che ci incuriosiscono perché sono diverse. E per scoprire poi alla fine che sono molto più simili di quello che sembrano.
BUONI (E CATTIVI)
Ricordi di lavagne col gesso. Il luogo dove veniva stabilito chi era buono e chi era cattivo. La lavagna emanava la sua sentenza inappellabile, almeno fino al giorno dopo. E prendeva forma un mondo dove chi era buono era quello che non disturbava, che non parlava mai, che non litigava con nessuno, che stava sempre al suo posto. I cattivi erano tutti gli altri, quelli che rompevano schemi, equilibri e qualche regola. Quelli che disturbavano. Troppo comodo il sistema e allora perché non dividere tutti in buoni e cattivi? Semplice, facile, funzionale. E’ scontato che i buoni siamo noi; gli altri, quelli che non si adeguano, sono cattivi. E vanno rimproverati, espulsi, non ascoltati, isolati, giudicati e condannati regole semplici.. ai buoni va dato tutto, ai cattivi niente. Perché siamo noi, i buoni, che decidiamo quanto uno è cattivo e che fine deve fare. E non scomodiamo il Vangelo; perché noi siamo così buoni, ma cosi buoni, che del Vangelo siamo convinti di poterne fare a meno.
ARMI
Se vendiamo libri forse ci sarà più gente che legge e che pensa.
Se vendiamo dischi forse ci sarà più gente che canta e che danza.
Se vendiamo giocattoli forse ci sarà più gente che gioca e che sogna.
Se vendiamo armi … di sicuro c’è più gente che spara e che muore.
Banale. Come il male.
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/coronavirus-ma-le-fabbriche-di-armi
DESERTO
Il deserto è un luogo quaresimale. Evoca la fatica, la solitudine, l’aridità. Nel nostro viaggiare incrociamo oasi ristoratrici che ci invogliano a fermarci, ma il deserto rimane un luogo soprattutto da attraversare. La nostra capacità di resistenza in mezzo al vento e alla sabbia si fonda sulla nostra capacità di credere alla vita e all’intensità con cui la si vive. Questo carico di solidarietà o di inadeguatezza, di paura o di speranza ce lo dobbiamo caricare sulle spalle anche quando siamo tentati di abbandonarli lungo i sentieri e vorremmo camminare con più leggerezza. E’ una tentazione con la quale dobbiamo confrontarci ogni giorno. I confini dei nostri deserti si stanno allargando e le genti costrette a passarci dentro sono sempre più numerose. Per fuggire dalla guerra, dall’aridità, dalla violenza e dalla fame il deserto ormai è un passaggio obbligato. Passaggio sempre più arido e sempre più vivo.
Un luogo nel quale, come ci ha insegnato Gesù di Nazareth, se vogliamo costruire comunione, occorre imparare a stare.
https://viaggi.corriere.it/itinerari-e-luoghi/gallery/i-15-deserti-piu-spettacolari-del-mondo/?img=4
RICORDARE
Ricordare è una azione che rimette insieme i pezzi di emozioni e fatti e fabbrica memoria. Non tiene viva la malinconia, ma alimenta e vivifica il presente. Ricordare dovrebbe essere un percorso spontaneo che ci rimette dentro la storia e ci aiuta a interpretare i fatti con i quali la abitiamo. Dal ricordo traiamo insegnamenti, ci rendiamo conto di chi siamo veramente, come persone e comunità. Con questa memoria andiamo a trovare il perché del nostro no alla guerra, del nostro no alla violenza, della nostra ribellione all’ingiustizia. E se ci lasciamo guidare con fiducia cogliamo l’opportunità che ci viene offerta per svegliare le nostre coscienze addormentate da una informazione che racconta come nuova e cattiva una violenza che è vecchia e sempre uguale, di una ingiustizia che non è una calamità naturale ma il frutto di rapine pianificate e attuate, di un uso della guerra come modo di risolvere conflitti sociali e economici che sacrifica senza scrupoli popoli e persone. Fare memoria è l’unica possibilità che abbiamo per capire che non ci sono violenze più tremende di altre. Fare memoria significa imparare a non dimenticare. Mai.
https://unaparolaalgiorno.it/significato/ricordo
STUDIARE
Per dire qualcosa bisogna saperlo. O almeno dovrebbe essere così. Ragiono, condivido, comunico emozioni nel momento in cui mi metto nelle condizioni di capire e approfondire. Studiare è faticoso. Bisogna cercare le fonti, mettersi a leggere, a collegare, a capire. E a volte questo è solo l’inizio; poi bisogna confrontarsi, riflettere, sviluppare una ipotesi e, perché no, tirare le conseguenze di ciò che significa per me quello che ho approfondito.
Ci sono temi che studiamo poco perché siamo convinti che non ne abbiamo bisogno; leggiamo qualche titolo, se va bene qualche articolo di giornale, un talk show sul tema ed è fatta. Ma in realtà non è fatta per niente. Nel momento in cui ci lasciamo trascinare dal pensare comune significa che non è fatta per niente. Prendiamo le guerre: ci sono dei buoni e dei cattivi, i nostri che arrivano e qualche stereotipo interpretativo che va bene per tutto. Poi si comincia a studiare e si comincia a scoprire che abbiamo a che fare con molto altro; con armi da produrre e da vendere, con giacimenti da sfruttare, con manipolazioni ideologiche e culturali da vendere per vere, con povertà da mantenere, con un mucchio di menzogne da smontare. Papa Francesco ci invita a non aver paura e a chiamare le cose con il loro nome. Dignità, guerra, povertà, diritto alla terra, cibo per tutti, accoglienza, commercio delle armi. È un invito a studiare, per cercare di capire e per poi condividere cosa fare.
CONFLITTI
Non bisogna avere paura dei conflitti. Ci sono. Fanno parte del nostro vissuto. Attingono vitalità dalle nostre debolezze e dalle nostre paure. Paura di perdere potere, prestigio, ruoli e ricchezza. Siamo uomini, soggetti spesso un po’ meschini e quasi sempre incapaci di guardare oltre noi. Per questo non dobbiamo avere paura dei conflitti. Perché ce li abbiamo dentro, sono in dote al nostro peregrinare e ci mettono di fronte alle nostre mediocrità. Ma dobbiamo avere paura di non riconoscerli e di non saperli affrontare, quello sì. Sperimentiamo ogni giorno che non siamo capaci di andare oltre la ricerca della nostra ragione. Di fronte al problema che rivela il conflitto non cerchiamo la soluzione: vogliamo vincere e basta. Non è la stessa cosa. Di questo dobbiamo avere paura, di non saperci convertire al dialogo. Viviamo il conflitto con l’affanno di “mostrare” la nostra potenza e la nostra superiorità. Come qualcuno chiese a Gesù di fare nel deserto. Una tentazione. Che Lui scacciò.
POVERO
La tensione a considerare chi è povero come un problema fastidioso che viene appaltato a chi si sente buono è un approccio vile che mina il senso profondo della convivenza umana.
Per evitare questo dobbiamo scavalcare i confini delle riserve nelle quali ci si vuole confinare. Dobbiamo temere il ruolo di monatti sopportati quasi con disprezzo, mentre raccolgono gli appestati per pulire la città per chi, dalla peste, si illude di rimanere lontano. E’ una missione che va fatta e si continuerà a fare perché non c’è niente che possa giustificare un vita che si consuma tra fango e fame, ma è una missione non sufficiente se vogliamo rendere salubre l’aria che respiriamo.
Per non farci rubare la speranza dobbiamo curare la responsabilità, gli incontri e le esperienze che ci hanno introdotti e accompagnati in un mondo di relazioni profonde e rispettose che sappiamo vere e reali.
Non saremo liberi solo se continueremo a tenere in piedi le nostre mense e i nostri ostelli.
Saremo liberi se faremo tutto ciò che va fatto perché una società capace di sciogliere le catene di chi è oppresso divenga, sempre più, l’unico luogo nel quale sia dignitoso vivere.
Per tutti
MEMORIA
Si vive d’incontri, di emozioni, di relazioni, di progetti. Non tutti come vorremmo noi probabilmente. Ma tutti capaci di lasciare tra le pieghe del nostro vivere segnali perenni con i quali fare i conti. Le memorie non è un esercizio per tenere vivi i ricordi: non serve.
La memoria non è il semplice ricordo di ciò che siamo. E’ ciò che siamo. E’ l’insieme di ciò che ha segnato la nostra anima e non se ne andrà mai. Mai. Forse distratti o forse preoccupati viviamo come se fosse sempre necessario inventare soluzioni per rispondere qualcosa e non tanto per essere qualcuno.
Ci si può provare per un po’, si può bluffare affogando nelle frenesie degli eventi e lasciandoci trascinare da ciò che pare inevitabile. Ma la memoria è paziente, non ha fretta e senza chiederci il permesso riaffiora e ci pone davanti domande alle quali forse non sappiamo o non vogliamo rispondere, ma dalle quali non possiamo scappare. Non è un privilegio di vecchi che hanno molto da offrire o di bimbi che non smettono mai di cercare. E’ la costante consapevolezza che per rimanere vivi dobbiamo fare i conti con un sacco di roba, ma soprattutto con noi stessi. Qui ed ora.
SALVARE
Non è compito nostro. Non ne siamo capaci. Non è compito nostro trovare soluzioni per altri, risposte per altri. Semplicemente non ne abbiamo per altri perché non ne abbiamo per noi stessi. E allora ci rifugiamo in quel “si dovrebbe” che alimenta sogni a prezzi stracciati. Ma anche in questo caso il “gratta e vinci” è un bluff e smaschera il fatto che le soluzioni facili non sono realizzabili. Ma fanno compagnia quando incrociamo i fatti drammatici della vita e sono sempre a portata di mano. Le custodiamo con tanta cura, così piene e ricche di suggestioni che le soluzioni piccole ma possibili ci paiono poca cosa. Ed è lì che ci incartiamo. Ci nascondiamo dietro il “o salviamo tutto o non salviamo niente”. Ci sembra troppo poco cominciare a salvare almeno qualcosa. Ma la strada è solo quella. Di certo meno affascinante, un po’ autoreferenziale, magari egoistica. Forse più semplicemente lo specchio di quello che siamo noi: un po’ stanchi, ripiegati sui nostri problemi, preoccupati dell’oggi. Siamo noi, con le nostre fragilità e le nostre contraddizioni. Non ci resta che guardare dentro questo limite, accoglierlo e accettare le nostre storie, facendo memoria di parole semplici capaci di generare esperienze di vita. “Qualunque cosa avrete fatto ai più piccoli lo avrete fatto a me” (Mt 25). Don Tonino Bello ci guarderebbe con tenerezza, ci inviterebbe a non pensarci troppo e ci inviterebbe a ricominciare. “In piedi, operatori di pace!”.
VEGLIARE
Se non si è feriti, stare svegli diventa una possibilità. Lo si fa perché si sente la necessità di ascoltare i rumori più lontani, perché si vuole imparare a guardare nel buio cercando un po’ di sicurezza, perché è vitale apprezzare le luci quando non sono invadenti e accecanti. La veglia non ci permette di barare: lentamente ma senza un attimo di pausa ci mette di fronte all’essenziale della nostra vita. Le nostre insicurezze si manifestano dentro un’esperienza che ci obbliga a riconoscercele. Allora i valori, i racconti, gli incontri riprendono vita e ci dicono chi siamo. Allora dalla veglia nasce la fatica di rimettersi in piedi e di scendere dal Monte Tabor per riprendere il nostro posto qui, nella storia.
Questo è tempo di veglia; addormentarsi ora lascia troppo spazio alle ruspe e alle loro giustificazioni. Non sappiamo quando ci potremo addormentare sperando di svegliarci nel nostro sogno più bello. Ma sappiamo che questo è tempo di veglia.
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SALIRE
Ovunque. Va bene un albero, una montagna, una collina. Ovunque, ma salire. Per allargare lo sguardo, per respirare profondamente, per non attorcigliarci su noi stessi. Per scoprire che c’è un mondo che può prendere forma nel momento in cui noi abbiamo il coraggio di guardare oltre. Ma occorre fare un primo passo per cominciare a salire; rischiando di sbucciarsi le ginocchia e di spellarsi le mani, di restare senza acqua e con poca aria. Troppo presi da ciò che ci sta attorno e un po’ troppo sicuri di ciò che già abbiamo, non cerchiamo il tempo per arrampicarci da qualsiasi parte. Forse è la paura di scoprire che ci siamo accontentatati di una pozzanghera quando con un po’ di fatica avremmo trovato una sorgente di acqua pulita. Salire spesso ha il sapore della lentezza e della noia, soprattutto se guardiamo solo i nostri piedi; ma chi dice di sapere delle cose della vita, racconta che se si tiene lo sguardo alto e se si ascolta il vento, si coglie la ricchezza di ciò che ci viene donato.