Sopraffatti da una solitudine che trasforma e impoverisce

ElisaBeata solitudine! Non sono pochi quelli che sottoscriverebbero questa esclamazione: la condizione di isolamento può essere cercata come una modalità per stare con se stessi, per riflettere profondamente o solo ritagliarsi uno spazio di tranquillità. Di più. Nelle riflessioni di poeti, scienziati e artisti di genio spesso ci si imbatte in un’aspirazione gioiosa alla solitudine, vista come momento creativo, come atto di indipendenza dalla futilità della quotidianeità, come rifugio meraviglioso per ritrovarsi con i propri pensieri. Da Jung a Picasso molte personalità eccellenti hanno celebrato la solitudine come antidoto perfetto alla banalità.

Ma non è di questo tipo di solitudine, agognata e corteggiata, che vogliamo parlare. La solitudine su cui vogliamo richiamare l’attenzione è quella subìta, temuta, inutilmente esorcizzata con i mille, piccoli passatempi che riusciamo a inventare, quasi a frapporre tra noi e “lei” un’invisibile muraglia. Parliamo delle giornate che non finiscono mai perché nessuno sguardo, nessun sorriso viene a illuminarle; le giornate in cui ci si sente abbandonati e dimenticati, le ombre della sera che vengono a inquietarci perché non ci sono braccia che ci cingono le spalle a confortarci. Parliamo di quel lasciarsi andare, di una trascuratezza che avvolge a poco a poco tutte le nostre azioni, tutti i momenti delle giornata. Non si tratta di indulgere in suggestioni tardoromantiche.

Proprio no.

La solitudine di cui parliamo è concreta, quotidiana, tangibile. Soprattutto “urbana”, perché non attecchisce o prende corpo in misura molto minore, nei piccoli centri, ma dilaga nelle grandi città come Roma.

La verità è che nelle nostre metropoli affollate, nei palazzi alveare, nelle strade ingolfate di automobili ci sono davvero tante, troppe solitudini; tante, troppe persone povere di relazioni umane. Il direttore della Caritas di Roma, monsignor Enrico Feroci, le ha chiamate «povertà nascoste» nel corso di un recentissimo convegno promosso dalla Caritas diocesana a Roma proprio sul tema delle solitudini che si celano nelle case della metropoli. Già, perché le persone povere e sole non sono soltanto quei barboni coperti di stracci che si accovacciano sotto i tunnel o ai margini delle stazioni ferroviarie e che guardiamo purtroppo ormai con indifferenza: si va estendendo nelle nostre città una forma di “barbonismo domestico”, dove la casa diventa una tana in cui barricarsi per paura e diffidenza verso l’esterno avvertito come minaccioso e ansiogeno. Una casa che finisce col sopraffare le povere creature che vi si nascondono. E sono tanti anziani, certo, che spaccano il centesimo di una pensione risibile (ricordiamo che a gennaio 2017 secondo la più recente stima dell’Istat le persone ultrasessantacinquenni hanno superato per la prima volta in Italia la soglia del 22%).

Ma ci sono anche tanti adulti, magari impoveriti e isolati a seguito di una separazione. E tanti giovani; non solo ed esattamente i “giovani Neet” (quelli che non lavorano e non studiano), che pure hanno le loro fragilità. No, stiamo parlando di una fenomenologia più subdola, cui i giapponesi hanno trovato un nome: li chiamano hikikomori e sono quei ragazzi che si rifugiano nelle loro camerette e accettano di avere con l’esterno soltanto relazioni virtuali attraverso la Rete. In questo caso la solitudine non è proprio subita, come può essere per pensionati e anziani soli. Loro, i giovani hikikomori hanno “soltanto” perso ogni fiducia nell’umanità e si sentono a proprio agio tra le quattro mura della loro camera con una finestra virtuale sul mondo mediato però da uno schermo, da un monitor: niente odori, sapori, niente di “pericolosamente” umano. Del resto i giovani che non lavorano e non studiano sono ormai in Italia ben oltre 3 milioni, non sono più certamente un fenomeno minoritario. Siamo di fronte a un comportamento estremo, patogeno, come ha sottolineato lo psichiatra Tonino Cantelmi, che però rivela come una cartina al tornasole il rifiuto da parte dei ragazzi di una società individualista, basata sulla competizione, la furbizia, l’arrivismo.

Durante il Convegno della Caritas si è cercata anche un’interpretazione più generale del fenomeno: la diffusione della solitudine è certamente un male per i singoli. Ma il sociologo Mauro Magatti (tra i relatori del Convegno) ha sottolineato efficacemente come l’idea di individuo isolato, preesistente al sistema di relazioni umane, sia un grande abbaglio antropologico della nostra contemporaneità. Un’idea semplicemente falsa. L’individuo da solo è un’astrazione; la vita comincia da una relazione e attraverso una relazione simbiotica rafforza i primi battiti del suo cuore.

Ma la solitudine è anche un male per la collettività tutta in termini sociali ed economici.

Un’imponente letteratura medico-scientifica internazionale ha ormai verificato il rapporto tra solitudine, indebolimento del sistema immunitario, insorgenza di depressioni e disturbi cardiovascolari, che si traducono in costi sociali ed economici per l’intero sistema Paese. E sulla rilevanza del fenomeno non si debbono nutrire troppi dubbi: il “Servizio aiuto alla persona” della Caritas di Roma, ha evidenziato durante il Convegno il responsabile Massimo Pasquo, nel corso del 2016 ha effettuato oltre 40.000 interventi domiciliari a persone sole, portando nelle case cibo, medicine o più semplicemente compagnia, un sorriso. Tra gli utenti raggiunti a domicilio dalla Caritas prevalgono le donne, forse perché le donne più facilmente mostrano le loro debolezze, forse perché più facilmente parlano di emozioni e stati d’animo.

La solitudine non conosce steccati: persone affette da patologie importanti vivono abbandonate a se stesse, persone con disturbi mentali che nessuno accompagna e segue, donne e uomini vittime di una crisi matrimoniale, anziani senza parenti o con parenti lontani che non possono o non vogliono accudirli, disabili che hanno perso i genitori ; sono gli “scarti” di una società che corre troppo veloce per accorgersi di loro. Spesso i volontari della Caritas che li raggiungono fin dentro le loro abitazioni debbono impegnarsi e dar fondo a tutta la loro capacità di persuasione per stabilire un contatto, una relazione serena di aiuto.

In un vecchio film americano con un giovanissimo Di Caprio, all’epoca assai sottovalutato dalla critica, “The beach” si raccontano le vicende di una comunità hippie che aveva cercato (e trovato) un paradiso, la spiaggia incontaminata del titolo, per vivere ed essere felici. Tutto scorre serenamente finché un giovane norvegese di nome Christo (un caso?), non viene assalito da uno squalo che lo lascia con profonde ferite. La comunità decide, dopo una cura di pochi giorni, che Christo si lamenta troppo e rovina l’atmosfera ìlare delle loro giornate; Christo viene portato nella boscaglia per essere abbandonato al suo destino…

Non possiamo abbandonare nelle loro case i tanti poveri cristi che la vita ha piegato: per affrontare la contemporaneità non bastano i piccoli egoismi incubati a ridosso del terzo Millennio, serve una visione universale cristianamente ispirata.

Elisa Manna
Ufficio Studi della Caritas di Roma
Apparso su Avvenire del 15 giugno 2017