Un viaggio verso la speranza, sulla rotta balcanica

I media ogni giorno ci parlano degli sbarchi di immigrati sulle coste italiane senza tener conto degli altri ingressi in Italia derivanti da diverse rotte di viaggio altrettanto preoccupanti sotto il profilo umano.

Alla luce dei nuovi accordi con la Libia e con altri paesi di provenienza, determinati dalle politiche italiane sulle migrazioni, nel nostro servizio assistiamo all’accoglienza di minori (principalmente egiziani ma anche pakistani e bangladesi) che affrontano percorsi di viaggio diversi rispetto a prima, la cui durata può arrivare ai 2 anni e che sono caratterizzati da respingimenti e violenze da parte della polizia di frontiera.

Le condizioni di sopravvivenza di questi minori durante il viaggio e le situazioni che affrontano nei paesi di transito, sono estremamente traumatiche e portatrici di profonde ferite. Una volta accolti, i minori appaiono disorientati, confusi e debilitati fisicamente. Molti di loro hanno problematiche sanitarie (dermatologiche e/o di natura infettiva) che richiedono cure tempestive. Ci descrivono le umiliazioni e i maltrattamenti subiti, trasmettendo a chi hanno di fronte uno stato di vulnerabilità che richiede una presa in carico complessa sotto tutti i profili.
A testimonianza di quanto sopra descritto e per “lasciare la parola” ad uno dei protagonisti di questi viaggi della speranza lungo la rotta balcanica, riporto di seguito la sua storia raccontata in sede di colloquio sociale alla presenza del mediatore interculturale.
Da sottolineare che questo ragazzo giunto in Italia è risultato positivo al COVID19 e ha affrontato un mese di quarantena presso una struttura dedicata a questa emergenza.

“Ho lasciato il mio paese d’origine in quanto avevo coltivato il sogno di venire in Europa sin da bambino. Un mio zio materno che vive in Francia mi ha sempre raccontato di come sia bella la vita in Europa e ne sono rimasto affascinato. I miei genitori, preoccupati per la mia sorte, non erano favorevoli al mio progetto migratorio, soprattutto per la pericolosità del viaggio, ma io li ho convinti, insistendo per circa due mesi ininterrottamente con la mia idea di voler raggiungere l’Europa ad ogni costo.
Sono partito dall’Egitto il 9 dicembre 2018 con la complicità di un trafficante che mi ha fornito i biglietti aerei e il visto per raggiungere la Turchia. Sono arrivato dapprima ad Istanbul e in seguito a Smirne. Dopo aver trascorso alcuni giorni a Smirne dopo 4 tentativi (la polizia di frontiera mi respingeva ogni volta), ho raggiunto la Grecia con un gommone, precisamente l’isola di Samos, sono stato soccorso e inserito in un centro di accoglienza, dove, come da accordi con il trafficante, sono rimasto circa 1 anno in attesa di essere regolarizzato.
In Grecia ho vissuto in un container in pessime condizioni. Uscivo raramente e quando accadeva a volte venivo fermato dai poliziotti con il sospetto che avessi rubato. Questa era la falsa motivazione con la quale venivo portato in caserma dai militari e venivo picchiato selvaggiamente per ore per essere poi rilasciato e portato al centro dove alloggiavo. Avevo dolori sul corpo per mesi e credo che sia anche capitato che mi abbiano procurato qualche frattura alle ossa ma non ho ricevuto alcuna assistenza. Dopo un anno trascorso a Samos, sono stato trasferito dalle Autorità locali in un altro centro ad Atene dal quale, stanco dell’attesa di un permesso di soggiorno mai ricevuto, mi sono allontanato per venire in Italia affidandomi ad altri trafficanti. Durante il viaggio dalla Grecia all’Italia ho attraversato, in automobile, in pullman ma principalmente a piedi, numerosi paesi quali la Macedonia, la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia, dormendo in luoghi di fortuna spesso all’aperto, nei boschi per nascondermi e ho subito maltrattamenti di ogni genere principalmente dai militari e dalla polizia. Il viaggio è durato altri 8 mesi.
Ho provato 15 volte ad attraversare il confine tra la Bosnia e la Croazia ma venivo sempre fermato dalla Polizia di Frontiera, picchiato, derubato dei vestiti, delle scarpe, del cellulare, dei miei effetti personali… la polizia prima di lasciarmi andar via bruciava tutto ciò davanti ai miei occhi e dopo aver assistito alla distruzione delle mie cose, ero costretto a rientrare ad un campo profughi distante 40 km dal confine: il tragitto verso il campo profughi avveniva a piedi scalzi e in mutande e maglietta ed era molto faticoso e umiliante. Nonostante abbia denunciato tutti gli accaduti ad alcune associazioni presenti sul posto, nessuno si è mai attivato affinché qualcosa potesse cambiare. In tutto questo non ero solo, c’era un altro connazionale mio coetaneo con il quale ho affrontato questa brutta esperienza e tanti altri minori e migranti che ambivano a raggiungere l’Europa per avere una vita migliore.
Il 3 agosto 2020, sono arrivato in Italia attraversando la frontiera di Trieste e in seguito ho raggiunto in treno Roma dove sono stato accolto in uno dei centri per minori della CARITAS.
Il mio viaggio ha avuto il costo di 10.000 euro, somma di denaro che ha pagato la mia la famiglia”.

Testimonianza raccolta da Simona Bosi
assistente sociale dell’Area Minori

Condividi