Dal 9 al 19 novembre, a conclusione del Percorso Introduttivo alla Solidarietà Internazionale, siamo stati ancora una volta in Bosnia – Erzegovina con un gruppo di 10 persone per un’esperienza di solidarietà internazionale nelle zone segnate dalla guerra.
A 20 anni dallo scoppio della guerra dei Balcani, la nostra presenza è un piccolo segno di amicizia e vicinanza a tutti coloro con cui in questi venti anni abbiamo camminato insieme.
Attraverso Sarajevo, Tuzla, Srebrenica, Kotor Varoš, incontreremo le realtà segnate da quella guerra ed i conflitti ancora presenti oggi.
Il significato del viaggio nel Balcani è spiegato da Oliviero Bettinelli, responsabile del Sepm, che alla vigilia della partenza ha scritto per “Operatori di pace”, il foglio di collegamento un editoriale.
«“È l’alba che fa il programma!”. “Chi non c’è, non serve!”. Questi sono solo flash, che danno un’immagine chiara di padre Pero Karajka, il parroco francescano della piccola parrocchia di Kotor Varos. In queste frasi troviamo non solo uno stile di vita, ma tutta la storia e la sofferenza di un uomo e di un popolo.
Il nostro viaggio è cominciato così, con l’incontro di quest’uomo. Un incontro che all’inizio ci ha anche turbato: noi con la nostra smania di organizzazione, di progettazione e programmazione, noi con le nostre idee su come si “va incontro agli altri”, siamo rimasti un po’ perplessi di fronte a quest’uomo senza programmi, pronto a rispondere con la sua energia e la sua passione, il suo amore per l’uomo, a quello che l’alba gli presenta. È attraverso di lui, attraverso le sue storie, le sue frasi, la sua voglia di tornare a vivere, e anche la sua solitudine, che per qualche giorno abbiamo potuto avvicinarci un po’ alla storia della Bosnia, e ai segni, fisici e non solo, che il dramma della guerra lascia ancora vivi a sei anni dai trattati di pace. È proprio grazie a lui che abbiamo potuto fare un’esperienza basata non tanto sul “fare qualche cosa”, quanto sullo “stare con”, sul cercare di osservare ed essere vicini nella quotidianità, piuttosto che nel dare risposte preconfezionate, che poi si rivelano sempre sbagliate. È stato grazie a lui sicuramente che abbiamo potuto confrontarci con lo stile del mettersi a disposizione, senza per forza seguire il programma dettato dai nostri ragionamenti.
Sono parole di quasi dodici anni fa, al ritorno dalla prima esperienza del progetto “Orizzonti e Confini” con un gruppo di giovani della nostra diocesi in Bosnia. Oggi torniamo ancora una volta in quei luoghi con un nuovo gruppo di persone per vivere un’esperienza nuova. Sono passati 20 anni dall’inizio della guerra: quella guerra e quei luoghi da diverso tempo non fanno più notizia, quasi non restano più nelle nostre memorie. Tornare oggi in quei luoghi è molto di più del celebrare una data, un rito.
In questi dodici anni, tornando più volte in quei luoghi, abbiamo continuato a imparare a crescere insieme; abbiamo continuato a cercare di capire, conquistando ogni momento di più la certezza che non ci saremmo riusciti: “Trascorrere del tempo con persone che hanno vissuto la guerra – scrivevamo allora – non significa condividere il loro stato d’animo. Neppure sforzandomi avrei potuto capire pienamente il significato profondo di certi sguardi, di certe azioni, di una rassegnazione apparente e di tanta voglia di vivere”.
Partiamo ancora una volta, perché solo l’incontro tiene viva la relazione, perché solo la condivisione e la voglia di raccontare danno un senso alla storia. “Le nostre scelte non sono mai neutrali. Noi possiamo scegliere da che parte stare. Il povero non può scegliere, può stare solo dalla sua, ma noi sì”»