Quell’amore materno che lotta con la morte

Una rubrica realizzata dai volontari e dagli operatori del servizio domiciliare “Aiuto alla persona” per ricordare e denunciare le morti di tre anziani emarginati che vivevano nascosti nelle loro case sporcizia e abbandono.

La situazione dei poveri, delle persone fragili, degli anziani, e degli “ultimi” sta sempre più peggiorando all’interno del nostro paese. Le continue crisi economiche, l’indebolimento sempre più marcato del tessuto sociale, la pandemia e una società sempre più egoista hanno accentuato la povertà, il bisogno e soprattutto la solitudine. Tutto ciò è ancora maggiormente percepibile nelle grandi città, in cui problemi antichi si mescolano più velocemente e più profondamente con problemi attuali. La nostra città, Roma, non è diversa dalle altre; anzi, viste le sue dimensioni, il numero di persone che la abitano e l’estrema eterogeneità delle stesse, può essere indicata come un ottimo metro di giudizio della situazione generale. Come operatori della domiciliare della Caritas di Roma ogni giorno ci troviamo a fare i conti con i problemi sopra descritti. Conoscendo bene la disperazione di certe condizioni limite dell’esistere e potendo cogliere da un lato un continuo peggioramento delle stesse e dall’altro la nemmeno tanto nascosta indifferenza verso tali circostanze, abbiamo deciso di intraprendere un percorso di emersione e sensibilizzazione, quasi una denuncia dello stato delle cose, nella speranza di poterle cambiare insieme attraverso una sensibilizzazione maggiore rispetto alla realtà che tutti viviamo.
Non volendo ricoprire il mero ruolo di segnalatori di salme, abbiamo deciso di proporre delle testimonianze scritte su quelle morti. Riflettere sulle situazioni che le hanno rese possibili e riflettere su quello che tali morti avevano lasciato a noi stessi, come persone, prima che come professionisti.

Ognuno di noi ha un’esperienza diversa e profondamente personale della morte. Nella mia vita la morte è stata una presenza reale e non mi è stata nascosta ma sempre presentata come parte della vita. La mia relazione con Lei cambia sempre e ha creato in me emozioni molto forti che si sono modificate col passare del tempo. Ho provato paura e ansia, pace e tranquillità, dolore e sollievo, sconforto e incredulità, gratitudine e rabbia. Pensavo di aver già vissuto molte delle sfaccettature che l’evento-morte può creare nell’animo umano. Questo lavoro e, in particolare l’estate passata mi hanno fatto scoprire una varietà di emozioni che non facevano parte del mio bagaglio.

Tra giugno e settembre 2021 quattro persone che visitavo sono morte in rapida successione. Con alcuni di loro ci conoscevamo da anni e con altri da poche settimane o qualche mese. Alcune sono state morti improvvise e altre, in fondo, erano già annunciate. Avrei piacere di raccontare di ognuno di loro ma per brevità racconterò l’esperienza che ha avuto in me la risonanza maggiore.

Si tratta di una donna di 35 anni, aveva un bambino di 8 anni, straniera e malata oncologica da moltissimo tempo. Ha combattuto con le unghie e con i denti per poter rimanere a casa il più possibile per stare con suo figlio. La morte, così chiaramente presente in quella casa, veniva azzittita a forza di medicinali dall’amore di una madre. Quest’ospite indesiderata, però, non si lasciava mettere da parte con facilità; la mancanza di forze, la rabbia dovuta ai dolori lancinanti, a volte incontrollata, rendeva impossibile prendersi in giro. Il nostro servizio l’ha accompagnata nell’ultimo tratto di questa lunga esperienza. Siamo stati noi a farla sdraiare più volte quando non voleva arrendersi alla stanchezza o ad aiutarla ad ottenere i farmaci quando nessuno credeva al suo dolore visto che non riusciva ad esprimersi bene nella nostra lingua o ad ascoltarla quando aveva bisogno di parlare. Il tempo era sempre troppo poco, le forze anche. Alla fine, tra tutti gli operatori che frequentavano la sua casa, a me è toccato l’arduo compito di chiamare ancora l’ambulanza sapendo che probabilmente quella era l’ultima volta. La guardai negli occhi non potendo promettere che sarebbe tornata a casa e mi resi conto che già lo sapeva. La accompagnai in bagno e vidi come, nonostante tutto, quella donna non perdeva il rispetto di sé e mi chiedeva di uscire. Accettò con grande sforzo la mia presenza in quel bagno e si mi resi conto che il solo gesto di girarmi e non guardare le ridonò la dignità di cui si sentiva privata. Toccare quel corpo, che poteva essere il mio, adagiarlo sulla sedia perché non era neanche più in grado di fare due passi e portarla all’ingresso perché i paramedici potessero visitarla fu forte perché eravamo coetanee e anche fisicamente simili, almeno dalle foto che avevo visto di lei prima del cancro, ma non feci nessuno sforzo nel sollevarlo anche se lei si appoggiò completamente a me. Mi resi conto di quanto oramai fosse assuefatta ai medicinali perché mi chiese una giacca dove aveva la sua scorta senza pensare che appena arrivata in ospedale le avrebbero tolto tutto ma soprattutto risi di me perché il mio cervello si faceva remore sul fatto di darglieli o no. 

Tanto tempo prima le avevamo fatto una promessa, non le dobbiamo fare lo sappiamo, ma l’abbiamo sentita così impellente: avremmo cercato in tutti i modi di non lasciarla sola. Mai come nel momento in cui salutò il figlio e la portarono via, sentimmo la necessità di tener fede alla parola data. Coordinati con i servizi sociali e l’ospedale ci siamo sempre interessati delle sue condizioni e un giorno ci fu chiaro che mancava poco. Volevamo vederla, tutte noi che avevamo visitato la sua casa, la sua vita. I tempi lavorativi e dell’ospedale non ci favorivano. Alla fine ci mettemmo d’accordo per andare un sabato. Per vari motivi ci dissero che sarebbe stato impossibile vederla e fu inviato un messaggio che l’appuntamento saltava. La vita ha sue logiche strane e, in quel periodo, avevo deciso di non attivare le notifiche di WhatsApp quindi non lessi il messaggio. Arrivai in ufficio trovando una delle colleghe che doveva venire con me in un momento di profondo sconforto. Parlammo a lungo e mi resi conto che la decisione presa non ci tranquillizzava. Per esperienza personale penso che questo tipo di inquietudini vadano ascoltate, allora proposi alla collega di andare comunque in ospedale, di provarci, aspettare il tempo necessario per poterla vedere fosse stato anche per cinque minuti. Se non ci fossimo riuscite potevamo almeno essere contente di averci provato. Così facemmo. Alla fine, dopo un’ora e mezzo di attesa, ci fecero entrare e potemmo salutarla. Mi strinse la mano, non riusciva più a parlare, a malapena a respirare, ma non lasciava la mia mano. Le dissi che sarei tornata il giorno dopo con una collega e che le volevo bene. Mi lasciò la mano. Ce ne andammo con la speranza che almeno riuscisse a vedere suo figlio. Poche ore dopo ci dissero che era morta. 

Di questa esperienza mi porto dietro tantissime cose. Una di queste sono riuscita a visualizzarla chiaramente solo più avanti, quando la tempesta delle emozioni si era placata un pochino: la morte è un’esperienza che possiamo fare solo da spettatori. Quando ne saremo attori non avremo la possibilità di ragionarci. Ancora più avanti realizzai quanto l’esperienza-morte di questa donna fosse iniziata molto prima del momento dell’agonia e quanto ha fatto parte anche della sua vita e di riflesso della mia. Il mio ruolo però rimaneva comunque quello di spettatrice di un mistero. La presenza della morte nel nostro rapporto mi ha posto tante domande. Il mistero insondabile che questo nuovo attore portava con sé nella relazione tra di noi mi chiedeva di credere nel valore di una vita temporalmente molto corta, di sperare che il tempo e la fatica spesi avessero senso nonostante la mancanza di risultati quantitativi. Mi spiego meglio: il tempo passato con le persone che incontro per lavoro è volto principalmente a creare una relazione, a diminuire la distanza con l’altro per creare un terreno comune ma la morte annunciata di questa donna mi diceva che il tempo era poco e che mi dovevo muovere in un altro modo senza però considerarla come fosse già morta. Riuscire a fare entrambe le cose era difficile. Era fortissimo il senso di impotenza e sconfitta. Scattò in me la necessità di arida semplicità. Di avvicinarmi a lei senza strutture, senza creatività, senza nessuna protezione. Mi sono trovata esistenzialmente NUDA davanti ad un’altra persona NUDA, che stava lasciando la nostra relazione, la relazione con la vita. Ero, probabilmente, l’ultima persona che avrebbe visto.

Improvvisamente mi colpì una domanda: ma guardandomi che vedeva? Una Operatrice Socio Sanitaria? una persona mandata dal comune? Una operatrice della Caritas? Una persona e basta? 

In ogni evento-morte vissuto con queste quattro persone, scavando bene nel profondo del mio cuore, c’erano solo due domande: l’ho amato al massimo delle mie possibilità? Si è sentito amato?

Il rendermi conto che, in fondo, questo era l’unica cosa importante, è stato come un tornado che ha scalzato qualsiasi schema, qualsiasi filosofia e ha preteso tutta la mia umanità e tutta la mia capacità di amare. Ha scalzato qualsiasi mia determinazione nel “fare qualcosa”; non c’era più tempo, non c’erano più parole. Ha scalzato qualsiasi difesa e barriera e mi ha chiesto di esserci. E basta.

Questa esperienza di morte fisica mi ha mostrato quanto tutte queste riflessioni valgano anche per ogni morte ontologica che incontro sul lavoro. Anche se con sfaccettature diverse, ogni persona con cui mi relaziono mi spinge ad aprire quella botola profonda dove sono conservate queste due domande: sto amando al massimo delle mie possibilità? si sente amato?

Ringrazio la vita e la morte di questi uomini e donne che hanno incrociato il mio cammino. Essere stata spettatrice di entrambe oggi mi rende più coraggiosa quando altri mi chiedono di aprire quella botola.

Caterina Schiavon
operatrice domiciliare della Caritas di Roma

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