In questo periodo di forte caldo la città si prepara e si organizza nel tentativo di offrire un sostegno ed un aiuto concreto a tutte quelle persone che per cause e percorsi diversi si trovano a dover fronteggiare la quotidianità della vita di strada.
Sappiamo bene, infatti, che i profondi disagi patiti e sofferti dalle persone senza dimora della nostra città lungo tutto l’arco dell’anno così come le difficoltà ed asprezze causate dalla vita di strada e in strada si acuiscono ed aggravano proprio nei mesi in cui le temperature romane raggiungono i loro apici più estremi (di caldo e di freddo).
Per questo motivo la città tenta ogni anno di fronteggiare in maniera organizzata e sistematica gli aggravi e le pesantezze delle problematiche che le persone senza dimora si trovano a subire quando sono esposte al forte caldo, al forte freddo e in generale a tutte quelle situazioni metereologiche più dure che spesso, troppo spesso, producono esiti nefasti.
L’Assessorato alle politiche sociali del comune, le associazioni, i cittadini partecipano all’attivazione di misure ad hoc che mettano in sicurezza le persone senza dimora e che siano finalizzate alla prevenzione di risultati disastrosi, dolorosi e, oseremmo dire, “vergognosi” per una comunità civile.
Se tutto questo è vero ed apprezzabile dal punto di vista del sostegno alle situazioni più a rischio, tuttavia alcune tematiche rimangono aperte, come quella della consapevolezza e della presa di responsabilità comunitaria per le fragilità della nostra città, presa di responsabilità che parta da ciascuno di noi e che sia percepita come impellente.
Su questo punto occorre porsi una domanda. Rispetto a tutta questa problematica, rispetto alla condizione di deprivazione materiale, relazionale, emotiva, rispetto al dolore, alla malattia, alla possibile morte di un fratello che è costretto a vivere per strada e a non avere mezzi per difendersi dalle avverse condizioni climatico/ambientali di certi periodi, ebbene la nostra comunità civile e ancor più ecclesiale dove sono, come si pongono, cosa pensano?
Papa Francesco sin dall’inizio del suo pontificato ha usato parole precise ed esortazioni decise verso la necessaria riattivazione del suo popolo tutto, cioè noi. L’attenzione e la premura alla povertà e ai poveri/bisognosi è ciò di cui il nostro Papa ci chiede di occuparci più di ogni altra cosa e prima di ogni altra cosa. Ma lo facciamo?
Per chi di noi si professa discepolo del Maestro, quindi credente, la cura per il fratello in difficoltà è irrinunciabile, potremmo dire quasi costitutiva; il Papa ce lo ricorda con chiarezza quando nell’EG scrive: «occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli» E ancora: «la parola solidarietà si è un po’ logorata e a volte la si interpreta male, ma indica molto più di qualche atto sporadico di generosità. Richiede di creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti».
Quello che ci sembra il nostro pontefice voglia aiutarci a capire è che vi sono delle priorità di attenzione e di disposizione di cuore di cui dobbiamo imparare a riappropriarci, delle centralità di vita che possono orientare correttamente il senso della nostra esistenza. E lo fa non usando toni di rimprovero ma di sprone affinché i nostri orizzonti visivi ed ermeneutici si amplino.
Le sue sono indicazioni metodologiche più che di contenuto, come spiega Frangi in un suo articolo su Vita: «il metodo di Francesco è molto semplice: chiede a tutti di mettere al centro non le idee, per giuste e corrette che siano, ma la realtà. È il metodo del “discernimento”». Attraverso la capacità di ascolto, discernimento, attenzione, pre-occupazione saremo in grado di realizzare quel cambiamento di mentalità e di atteggiamento tali da condurre alla “priorità della vita di tutti”, come dicevamo.
«Per ricercare ciò che oggi il Signore chiede alla Sua Chiesa, dobbiamo prestare orecchio ai battiti di questo tempo e percepire l’”odore” degli uomini d’oggi, fino a restare impregnati delle loro gioie e speranze, delle loro tristezze e angosce». (discorso di Papa Francesco alla veglia di preghiera in preparazione al Sinodo sulla Famiglia). L’ascolto, il confronto, lo sguardo: queste le indicazioni di metodo che papa Francesco indicava in una sua recente veglia di preghiera. E come egli stesso specificava, le sue erano parole già esplicitate nell’EG, quando ricordava: «quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta “all’altro “considerandolo come un’unica cosa con se stessi».
Ecco dunque la questione e anche la speranza: che ciascuno di noi si senta impregnato profondamente e indelebilmente dall’odore dell’altro, che significa sentire su di sé i segni delle sue gioie ma anche delle sue angosce, difficoltà, fragilità, impotenze. A volte del suo dolore…
Il richiamo all’odore dell’altro è una figura molto evocativa per diverse ragioni: una di queste è quella che fa riferimento al particolare odore o “sentore” che il vino, ogni vino emana. Ebbene, il sentore, nel linguaggio enologico, è quell’elemento profumato del vino che permette all’enologo di riconoscerne le caratteristiche e la preziosità proprio attraverso i profumi che esso emana e da cui l’enologo stesso è catturato. L’auspicio Caritas è si possa anche noi, nel quotidiano invito a lavorare nella vigna del Padre, divenire oltre che vignaioli, anche un po’ enologi, desti a cogliere i segni e i sentori di ciò che ci circonda ed a ri-conoscere la preziosità dell’altro.
Fuor di metafora l’invito è che ognuno senta l’urgenza di uscire da quel certo torpore che impedisce alla comunità ecclesiale di farsi erede e testimone della fede che la costituisce corpo, e che le impedisce di vivificare pienamente e profondamente la comunità civile nella quale è incorporata. È capire che la vigilanza continua sulle questioni di tutti e di ciascuno, sulle difficoltà, esigenze, marginalità nasce dalla necessaria disposizione a lasciarsi interrogare e rendere attenti ascoltatori verso qualunque “sentore” circa le situazioni e le vicende dell’altro che mi vive accanto, sia che esso si trovi a vivere nell’abitazione accanto alla mia che sul bordo della strada, sul marciapiede, nei dintorni della stazione, nei sottopassaggi degli ospedali.
Essere attenti vignaioli/cittadini vuol anche dire non lasciarsi distrarre dalla corretta focalizzazione delle questioni di maggiore rilievo e gravità; vuol dire non avere più alibi rispetto alla consapevolezza dell’esistenza nella nostra città di situazioni problematiche endogene che frantumano le esistenze delle vite “degli altri”, come per esempio quelle delle persone senza dimora; vuol dire sapere anticipare alcuni disagi o lavorare per rimuoverne la cause; significa anche assumere su di sé, in maniera responsabile, la fatica di coloro che “non ce la fanno da soli”.
Essere soli è una condizione in antitesi con l’essere comunità; essere in comunità, infatti, per estesa o meno che sia (familiare, parrocchiale, cittadina, nazionale, mondiale) significa sempre sentirsi parte di un’unica realtà o di un unico corpo (per coloro che si dicono cristiani). E questo non può non suscitare in ciascun appartenente un senso di corresponsabilità al bene di tutti, alle vicende di ogni singolo che da personali diventano comunitarie. Questo ci sembra il passaggio fondamentale, che è quel movimento di pensiero prima che di azione a cui il Papa richiama costantemente, quel passaggio dalla preoccupazione del mio ben-essere sganciato dalle condizioni esistenziali altrui alla necessaria inter-dipendenza del ben-essere di ciascun appartenente alla comunità, per cui il mio ben-essere non può più realizzarsi, non mi può più essere sufficiente, senza il correlato ben-essere dell’altro.
Per questo motivo il Papa prende la famiglia ad esempio paradigmatico per spiegare la funzione che ciascuna comunità matura dovrebbe svolgere; quella cioè di insegnare ad amare e a riconoscere la dignità di ogni persona, specialmente di quella più debole, prendendosene cura in maniera prioritaria e accorta.
E allora, in un assetto concettuale di questo tipo, le situazioni più varie possono venire lette come occasioni per “esercitarsi” in questa capacità di cura che l’appartenere ad una comunità suscita (o dovrebbe suscitare) nei suoi componenti. Così il caldo di questi giorni diventerà per molti il motivo per rendere evidente la disposizione profonda di attenzione e premura per l’altro, magari attraverso un gesto di dono semplice di sé e del proprio tempo: la segnalazione di una persona senza dimora in difficoltà, la prestazione di qualche ora di volontariato in un centro di accoglienza, la promozione di qualche attività di monitoraggio o denuncia o sollecitazione attiva, il semplice fermarsi ad osservare e capire la difficoltà dell’altro, ecc…
Sarebbe bello se il “sentore di caldo” di queste afose giornate romane ci radicasse sempre più profondamente nella realtà a cui apparteniamo prima che nelle nostre idee, come ci chiede il nostro Papa, e rendesse possibile riconoscere la trasformazione che occorre avviare per rendere vero, effettivo, significativo quel cambiamento di mentalità «che pensi in termini di comunità, di priorità di vita di tutti». Solo questo ci aiuterà a realizzazione la preghiera del nostro Pontefice a “non lasciare MAI soli i poveri”, né in estate, né in autunno, inverno o primavera che sia, aggiungeremmo.