Una sentenza della Corte dei Conti dello scorso 16 gennaio ha stabilito che il servizio per la gestione delle mense in favore di soggetti in condizioni di disagio economico-sociale per sua natura può essere sottratto all’espletamento di una gara, configurandosi il sostegno del Comune come contributo e non come corrispettivo dei servizi erogati.
Inoltre, nel caso delle mense gestite a Roma – dalla Caritas diocesana, dal Centro Astalli dei Gesuiti, dalla Comunità di Sant’Egidio, dall’Istituto “Don Calabria” e dall’Esercito della salvezza – «il costo a carico di Roma Capitale era inferiore a quello di qualunque altra prestazione analoga». Per i giudici contabili «il sistema di convenzioni ha permesso al Comune di Roma di far fronte all’emergenza sociale del territorio della Capitale in maniera stabile ed efficace, nell’impossibilità di interrompere un servizio essenziale per l’assistenza sociale»
Considerazioni queste che appaiono scontate per gli operatori sociali, i volontari e i dirigenti dell’amministrazione, ma che – prima di questa sentenza – risultavano difficili da comprendere a quanti vedevano nell’opera di queste associazioni una semplice attività imprenditoriale che doveva essere regolata dalle leggi di mercato.
Così deve averla pensata il vice procuratore generale della Corte dei Conti che il 7 novembre scorso aveva citato in giudizio i dirigenti di Roma Capitale per aver assegnato, nel periodo 2011-2015, la gestione delle mense sociali senza effettuare una gara europea, prevista dal codice degli appalti vigente all’epoca.
Questo perché «il Comune ha pagato 3,91 euro per ogni pasto, un prezzo che non sarebbe scaturito dalla comparazione delle offerte dei partecipanti a una gara».
La sentenza afferma invece che, per sostenere i cittadini in estrema indigenza, le mense si configurino come “livelli essenziali di assistenza sociale” e l’amministrazione comunale spende meno e realizza un servizio migliore “contribuendo” all’opera già erogata dalle organizzazioni del privato sociale. Un principio questo – la sussidiarietà – alla base della nostra Costituzione e cardine della Dottrina Sociale della Chiesa.
A spiegarlo è la stessa Corte dei Conti affermando che «l’attività resa dagli organismi attuatori che non si estrinseca in un mero servizio di ristorazione in favore di soggetti in condizioni di obiettivo disagio economico-sociale, ma comprende una serie di servizi collaterali – resi dagli stessi senza alcun finanziamento da parte del Comune – tramite la presenza interna di un servizio di “segretariato sociale” volto alla “presa in carico” delle persone al fine di verificare eventuali opportunità di miglioramento della qualità di vita».
Secondo la Corte, la scelta del Campidoglio «non ha prodotto un danno erariale ma un vantaggio per l’Amministrazione, che ha potuto godere di condizioni economiche più favorevoli di quelle di mercato evitando l’interruzione di un servizio fondamentale per la collettività». Affermando che quello del Comune si configura come “contributo” e non come “corrispettivo”, riconosce di fatto il prezioso lavoro dei volontari e degli operatori, delle parrocchie e dei gruppi ecclesiali, di tutti coloro – tra questi tantissimi giovani – che ogni giorno dedicano parte del loro tempo per gli altri. Un’opera che non si quantifica con bandi e rendicontazioni, ma che finalmente la giustizia contabile riconosce a tutti gli effetti come elemento di buona amministrazione.
Applicare le leggi contabili e amministrative al mondo del volontariato è sempre difficile, quindi comprendiamo – pur non condividendole – le motivazioni della magistratura che ha voluto per lo meno far chiarezza su tali procedure.
Meno chiare, anzi molto fosche, ci paiono invece le campagna “stampa” emerse sulla vicenda nei mesi scorsi e che solo in parte hanno visto riportare brevi menzioni della sentenza assolutoria.
La Caritas, come consuetudine, non è intervenuta pubblicamente durante il procedimento per rispettare il lavoro della magistratura. Ci sentiamo ora di esprimere gratitudine e stima ai dirigenti comunali che hanno subito questo “linciaggio” mediatico senza vedere ancora riconosciuto il loro giusto operato.
Quanto accaduto è però l’emblema di una fase storica molto particolare, soprattutto nella Roma del post “Mafia Capitale”. Organizzazioni che si fondano sul volontariato e che assumono forme giuridiche di no-profit, vengono considerate come aziende che operano sul libero mercato a cui, da dirigenti “terrorizzati” per possibili conseguenze legali come quella della Corte dei Conti, sono richiesti caratteristiche e permessi sempre più onerosi.
Può capitare allora che per aprire un Ostello dei poveri, essendo questa un’opera che per la normativa di riferimento è assimilabile ad una normale struttura alberghiera, nell’impossibilità di poter realizzare dei parcheggi – quale senza dimora va a dormire in un Ostello dopo aver parcheggiato la sua auto? – questi si debbano “monetizzare” e il relativo importo vada versato nelle casse del comune sotto forma di oneri concessori, così come avvenuto alla Caritas di Roma per l’Ostello “Don Luigi Di Liegro”.
Ancora più grave quanto sta avvenendo a Ostia, dove l’Ostello e la Mensa presenti da oltre trent’anni nei locali della ex colonia “Vittorio Emanuele” si trovano a non poter più operare in regime di convenzione perché l’immobile non risponde più agli standard previsti dalla normativa regionale. In questo caso la soluzione, purtroppo, è quanto di peggio si possa immaginare: per il piano freddo i senza dimora verranno ospitati in una tendopoli (alla faccia della normativa regionale)!