Il diritto a un risarcimento adeguato per le vittime dei reati violenti

Finalmente anche l’Italia, dopo anni d’inerzia, si allinea con quanto richiesto in Europa in materia di indennizzo per le vittime di reati intenzionali violenti. 

Vediamo con quali risultati.

Correva l’anno 2004.

Con la direttiva Europea CE/2004/80 s’imponeva a ciascun Stato membro l’obbligo di dotarsi, entro il 1’ luglio 2005, di un sistema efficace, volto a garantire un compenso equo e adeguato per tutte le vittime di reati intenzionali violenti, tra i quali rientrano anche la violenza fisica e il femminicidio. 

L’Italia, con enorme leggerezza, accumulava un buon numero di richiami dalla Corte di Giustizia dell’UE ed esortazioni fin dal 2011 dalla Commissione Europea per non aver ottemperato a quanto previsto dalla suddetta direttiva, recepita tardivamente dal “bel paese” solo nel 2017.

Fu così che “fortunatamente”, come in tutte le commedie che abbisognano di un lieto fine, il 24 novembre 2020, data che precede la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza che farà storia, sancendo l’obbligo per lo Stato Italiano di risarcire le vittime di reati violenti ed intenzionali, impossibilitate ad ottenere il risarcimento dall’autore del danno, con un indennizzo non più puramente simbolico ed irrisorio, ma parametrato e valutato in base al crimine, alla sua gravità ed ai danni morali e materiali che ne siano conseguiti.

Il caso di specie riguarda la tragica vicenda di una donna italiana che nell’ottobre 2005 era stata vittima di stupro. 

A seguito della violenza subita, gli autori del reato venivano definitivamente condannati in sede penale alla pena di dieci anni e sei mesi di reclusione, oltre ad un risarcimento del danno di cinquantamila euro da liquidarsi in separato giudizio ma i responsabili erano però sfuggiti alla giustizia e si erano resi latitanti. 

Lo Stato Italiano, sulla base della propria legislazione vigente e in barba a quanto statuito dalla normativa comunitaria, aveva allora concesso alla vittima un irrisorio indennizzo di 4.800 euro: un ulteriore schiaffo al diritto di ottenere una giustizia piena, equa, nonché un affronto all’aspettativa di non veder minimizzato il valore di una vita persa o di una violenza subita.

Pertanto, la stessa donna citava in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri affinché ne venisse dichiarata la responsabilità civile per la mancata e/o non corretta e/o non integrale attuazione degli obblighi previsti dalla direttiva 2004/08/CE del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle vittime e, muovendo da tale assunto, la Corte di Cassazione, adita sulla questione, accertava l’inadempimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, condannando la stessa al pagamento di una somma equa a titolo di indennizzo a favore della vittima del reato.

Così statuendo veniva confermata la responsabilità dello Stato per omessa, incompleta o tardiva trasposizione delle direttive europee all’interno dell’ordinamento italiano gettando finalmente le fondamenta anche nel nostro ordinamento giuridico per l’inizio di una prassi più rispettosa della dignità umana e maggiormente rispondente ai dovuti criteri di una giustizia partecipe e solidale.

Ebbene, le vicissitudini di questa brutta storia, giunta ad un lieto fine attraverso una strada ostile e tortuosa, hanno significato ancora una volta giungere alla triste constatazione che non c’è giorno in cui non scopriamo qualche nuovo tassello che invece di allinearci a quella tanto auspicata idea di unione e uniformità sempre più pare invece farci indietreggiare.

Attualmente, a seguito di quest’uniformarsi che indebitamente ha richiesto ancora una volta nel nostro Paese i soliti tempi biblici di attuazione, l’indennizzo riconosciuto alle vittime di questi crimini così vili e disumani sembra aver assunto nella pratica una consistenza più accettabile rispetto al passato; eppure le attuali cifre ancora appaiono completamente sperequate rispetto alla centralità basilare che fatti di violenza come questi dovrebbero assumere nelle decisioni politiche quali specchio della coscienza collettiva. 

Non capiamo la ratio di queste scelte legislative e non vogliamo pensare che si voglia realmente “risparmiare” sulla pelle delle donne. 

Il denaro non restituisce di certo una vita strappata, non cancella automaticamente la violenza subita, ma serve certamente da monito e da segnale. 

Particolarmente rilevante perché denota l’attenzione con cui lo Stato si pone di fronte a questi atti gravissimi.

Tanto più alto è il risarcimento riconosciuto tanto più facile sarebbe rispondere a domande come queste: quale riconoscimento lo Stato elargisce a queste vittime? Quale peso si assegna a reati così gravi? Quali garanzie si offrono ai familiari e ai figli delle vittime di femminicidio, alle sopravvissute che denunciano, che trovano il coraggio di intraprendere un percorso di fuoriuscita dalla violenza? Quali prospettive ci possono essere, che messaggio si sta dando se questi reati vengono quantificati in cifre ancora così irrisorie? 

Qualcosa rispetto al passato è oggi migliorato, ad oggi si può sicuramente parlare di indennizzi più equi rispetto a quelli derisori di un passato recentissimo ma il cammino è ancora lungo e l’auspicio è quello di poter presto giungere a dei traguardi che possano far sentire concretamente a chi subisce degli oltraggi così aberranti una vera vicinanza della collettività tutta attraverso scelte virtuose delle nostre istituzioni.

Anna Maria Pica
avvocato volontario presso il Nucleo assistenza legale della Caritas di Roma

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