Minori in comunità: il diritto di appartenenza

Una riflessione sui minorenni in comunità e il progetto educativo Caritas proposta in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 20 novembre

Un elemento che non può essere trascurato nel progetto educativo del minorenne accolto in comunità, soprattutto in vista della sua autonomia, è quello che Maslow definisce uno dei bisogni fondamentali dell’uomo: il bisogno di APPARTENENZA (affetto, identificazione): essere amato e amare, far parte di un gruppo, cooperare, partecipare, ecc.; rappresenta l’aspirazione di ognuno di noi a essere un elemento di un sistema riconoscibile. M. (15 anni, ospite della comunità per ragazze Domus Nostra): “Voglio tornare da scuola, aprire il cancello con le mie chiavi, entrare e dire Sono a casa!”

Il diritto del minorenne a vivere e crescere all’interno della propria famiglia è riconosciuto sia a livello internazionale (Convenzione dei diritti del fanciullo), come dalla legislazione italiana (Legge 184 del 1983, novellata dalla legge 149/01).

Solo laddove questo non fosse possibile, i ragazzi saranno accolti in strutture a carattere comunitario e/o familiare. I ragazzi accolti sono principalmente: minori stranieri non accompagnati (MSNA) – art. ex 403, la cui famiglia non è presente sul territorio; vittime di abuso e maltrattamento inseriti con decreto del Tribunale dei minorenni o autorità amministrativa, che necessitano di essere messi in una situazione di sicurezza; giovani inseriti a seguito di un Provvedimento di natura penale, la cui famiglia non può rappresentare un riferimento.

Bambini e ragazzi con storie diverse e con percorsi differenti. Ma con tutti è importante lavorare con le famiglie, presenti e assenti, passate, attuali e magari di domani. Individuare un percorso realizzabile in cui salvaguardare il diritto e il bisogno del minorenne ad avere una “famiglia” in grado di aver cura di lui è un compito non trascurabile. Laddove questo non venga fatto, il rischio è che il ragazzo lo cerchi da solo, magari affidandosi a sistemi disfunzionali. Pensiamo solo al numero significativamente alto delle giovani donne che affrontano una gravidanza nei primi 5 anni dalla dimissione dalle comunità residenziali dove sono state accolte in minore età.

Valutare le competenze genitoriali delle famiglie maltrattanti e promuoverle laddove vi sia spazio di crescita; instaurare un rapporto con le famiglie di origine dei minorenni stranieri non accompagnati, anche se lontane; individuare parenti sul territorio che possano rappresentare un legame affettivo positivo. Cercare di salvaguardare la famiglia d’origine se possibile. Sia durante questo periodo, che di solito rappresenta la fase iniziale di inserimento, che successivamente, laddove l’esito sia sfavorevole per il minorenne, può rappresentare una forma di risposta appoggiarsi alla solidarietà di altre famiglie. Le modalità possono differire a seconda delle situazioni e delle storie dei ragazzi accolti: modi diversi di rispondere al bisogno di affetto. Per i ragazzi più fragili, con una storia molto dolorosa, una risposta può essere la presenza famiglie volontarie in un contesto ad alto contenimento (la comunità) con cui i ragazzi possono instaurare relazioni significative, individualmente e in gruppo, fino a sostenere la costituzione di una comunità educante con ruoli differenti (come spesso avviene nelle famiglie allargate). Per il ragazzo con più risorse, desideroso e pronto ad avere una seconda famiglia, un passo ulteriore è l’individuazione di una famiglia solidale che lo accompagni nel suo percorso prima in comunità e poi fuori di essa. L’affido, un passo ancora ulteriore, resta l’opportunità auspicabile. La prima opzione non esclude la seconda o la terza, ma anzi può rappresentare una fase di preparazione, in cui i ragazzi si sperimentano nella relazione con un nucleo diverso da quello di origine.

Per coloro che hanno vissuto dei traumi profondi (maltrattamento, abusi, abbandoni, ecc.) può essere necessario una fase e un tempo per far pace e accettare quanto accaduto nel proprio passato, per distinguere il modo di “amare” della famiglia di origine, con un altro in cui il rispetto, la reciprocità, la fiducia e la comunicazione onesta siano quotidiani e mai messi da parte. In cui i ruoli genitoriali siano autentici e non abdichino a ragioni di egoismo o di fragilità proprie.

Impariamo cosa è una famiglia dalle nostre esperienze, ma se queste sono avvenute all’interno di un sistema disfunzionale, attuerò i medesimi schemi nelle relazioni future, queste a sua volte risulteranno non funzionali. Laddove invece sia stato esperito un lutto o una separazione traumatica, poter riacquistare fiducia nel futuro non è scontato. Da qui la paura. È importante rispondere al bisogno primario di affetto e appartenenza, declinata secondo una modalità per loro accettabile senza che sentimenti di tradimento, competizione, rabbia e dolore abbiano la possibilità di distruggere la persona e il sistema. La comunità educativa, in quanto sistema forte di un now how e una metodologia strutturata, può rappresentare un sistema capace di promuovere un cambiamento nei modelli operativi dei ragazzi accolti. La presenza di famiglie all’interno della comunità educante può divenire ulteriore fattore di promozione, affiancando il lavoro degli educatori, concentrando il loro mandato proprio sulla presenza come “essere nella relazione”, con la possibilità, nei momenti più complessi, di appoggiarsi al sistema contenitivo e professionale rappresentato dall’equipe. Guardare un film, chiacchierare del più e del meno, giocare a scarabeo o passeggiare e prendersi un gelato rappresentano momenti di una relazione, “piccoli gesti” (usando le parole di Papa Francesco), in cui il piacere di stare assieme è preminente e in quanto tale prezioso come una gemma. Tali famiglie divengono un sistema di supporto anche dopo la comunità, coloro da chiamare quando si ha bisogno di un suggerimento, di un aiuto, di un orientamento o di un supporto. Forti di una relazione sviluppata nella comunità, divengono dei fili rossi nella vita dei ragazzi e attutiscono il senso di separazione dall’esperienza comunitaria e di solitudine che spesso viene esperito dai care leavers.

Emanuela Baroncelli
coordinatrice della comunità per ragazze Domus Nostra.

Condividi