Andate incontro agli assetati, portate acqua

acquaNella cultura biblica dare da bere a chi ha sete è un dovere assoluto insito nella legge dell’ospitalità: in zone desertiche e steppose, come quelle in cui viene narrata la storia del popolo di Israele, rifiutarsi significherebbe condannare a morte l’assetato. Questa opera di misericordia richiama perciò alla tutela di un diritto fondamentale, senza il quale non esiste vita.
Sappiamo bene quanto la trasformazione da un diritto a una merce della disponibilità e accesso all’acqua stia segnando profondamente il nostro tempo, creando diseguaglianze, ingiustizie, potere dell’uomo sull’uomo a scapito dei più fragili e alterando gli equilibri internazionali.
Ma in questa breve riflessione vogliamo chiederci cosa significhi concretamente “aver sete” in una città come Roma, una delle metropoli più ricche di acqua in quantità e qualità. Sembrerebbe un “non senso” …
La sete, così come la fame, è una dimensione che storicamente richiama la sofferenza e precarietà della condizione umana: avere sete significa affermare l’impossibilità di potersi permettere altro se non l’essenziale, parla di assenza di futuro. Di perdita di dignità umana.
Allora sì, a Roma tante persone hanno sete: basta pensare a tutti coloro che sono in una condizione di precarietà ed emarginazione assoluta, vivendo in alloggi di fortuna sotto i ponti, lungo i fiumi, nei parchi o in ogni anfratto che la città nasconde o direttamente per strada, riparandosi con un cartone.
E poi c’è la sete di dignità prodotta da politiche istituzionali e da una visione miope della solidarietà: paradigma ne sono i cosiddetti “campi nomadi”. Nati negli anni ’80 per accogliere i rom in fuga dalla guerra nella ex Iugoslavia, sono frutto di una errata valutazione che voleva tutti i rom “nomadi” e perciò propensi a vivere in accampamenti provvisori: ben presto i campi, popolati da una varietà di gruppi rom differenti fra loro, ma tutti sedentari, si trasformarono nella definitiva soluzione abitativa proposta. Soluzione che ha dato all’Italia il triste primato di essere “il solo paese in Europa a promuovere un sistema di ghetti, organizzato e sostenuto pubblicamente” (ERRC 2000).
Perché di veri e propri ghetti si tratta, sia territoriali quali luoghi fisici recintati e con controlli negli accessi, ma soprattutto luoghi di emarginazione. Perché nei riguardi dei rom si è attuata una politica di assistenza coniugata all’esclusione, in quanto non accompagnata da iniziative e strategie di integrazione. Il povero, lo straniero, il rom che viene assistito senza integrarlo, viene ferito nella sua dignità e non potendo aspirare a raggiungere lo statuto di chi lo assiste (che ai suoi occhi appartiene a un mondo altro, da cui resterà inevitabilmente escluso), sviluppa odio e risentimento.
Il risultato sotto i nostri occhi, a decenni di distanza, è questo baratro di separazione fra “noi” e “loro”, alimentato da separazione fisica, comportamenti in conflitto, pregiudizi e paura reciproci.
Come essere misericordiosi di fronte a tutto ciò? La strada ci viene indicata dalle parole di Isaia: andare incontro a loro facendoci compagni di viaggio, creando relazione e fiducia, e portare l’acqua dell’accoglienza che restituisce dignità.
La Caritas da anni è impegnata nel promuovere l’accoglienza dei rom nella comunità cristiana e nella società con un lavoro di lotta al pregiudizio, di creazione del dialogo fra rom e gagé e di apertura di percorsi di fruibilità nelle istituzioni e servizi, così da poter includere chi ne è escluso. Grazie a un attento lavoro di rete e di collaborazione, indichiamo strumenti e modalità per realizzare tale accoglienza: alla base della proposta c’è l’idea che per svuotare i “campi nomadi”, così come le istituzioni propongono e la cittadinanza vuole, è necessario un lavoro di strutturazione di metodologie e linee guida, a partire da buone prassi sperimentate, e di formazione degli operatori istituzionali, quali i docenti delle scuole, gli operatori dei servizi sociali, il personale sanitario, così che si diffonda una cultura dell’accoglienza anche per chi, in quanto ai margini, è più fragile e senza risorse.

Fulvia Motta, responsabile Area Rom e Sinti

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