Noi lo chiamiamo “L’Accoglienza”

foto testimonianzaConosco S. da qualche anno ormai, è un ospite della mensa di via Marsala che non ha mai chiesto un posto letto ma ha sempre fatto riferimento a noi per le cose più svariate: dalla proroga per la mensa, alla ricerca di un lavoro; dalla compilazione di un curriculum al capire come fare per rinnovare il permesso di soggiorno. Alla fine è sempre stato molto più abile di noi a muoversi in quel ginepraio di burocrazia, incertezze e deludenti risposte, testardo arabo più determinato di chiunque altro nelle sue stesse condizioni, a fissare una residenza, rinnovare il permesso e trovare un lavoro. Alla fine, lui, ce l’ha sempre fatta.

Ricompare a mensa un paio di mesi fa, dopo quasi due anni di assenza; solita storia, torna a Roma perché l’anziano dove lavorava è deceduto e nessuno ha più bisogno di lui. Gli chiedo dove dorme e mi parla di un container in zona Tor Pignattara che condivide con un ragazzo rumeno, anche lui ospite saltuario della mensa. Quello che mi incuriosisce è che questa volta S. non mi chiede nulla delle solite cose, lavoro, aggiornare il curriculum… ma la sua prima richiesta è una coperta, poi un cuscino, la volta dopo una torcia, poi se ho dei bastoni per una tendina, delle stampelle per gli abiti…

Ho già detto quanto S. sia un ragazzo molto determinato; ora il suo obiettivo è restaurare ed arredare il suo container ed è per questo che a giorni alterni mi chiede le cose più disparate e ogni volta che riesco a portargli quello che vuole, nel mio curiosissimo immaginario prende forma questa scatola che lui vuole curare nei minimi particolari. Credo sia capitato a molti di noi di cambiare casa e provare, dopo il frustrante momento del trasloco, quel gusto unico nella cura dei dettagli, nella scelta dei colori, momenti in cui lo spazio al di fuori di noi ci riflette e ci completa facendoci sentire in armonia con esso.

Una sera, quando per l’ennesima volta gli chiedo di mostrarmi delle foto, mi dice: «ma scusa, perché non vieni a trovarmi?». Lì per lì sono rimasta spiazzata; a quanti di voi è mai capitato di essere invitati a “casa” da un senza fissa dimora?  Inaspettatamente, la mia curiosità valica ogni incertezza, prudenza professionale e barriera architettonica della mente e accetta l’invito.

Non è certo la prima volta che esco con lo SNI, ma quella sera sono emozionata e cerco di profondere nei miei tre compagni di viaggio la mia stessa adrenalina, seppur con scarso successo; in fondo sto solo cercando di convincerli che andare in un punto imprecisato di Tor Pignattara, in una zona disabitata, quasi in aperta campagna, di sera a trovare un amico che dorme in un container: è una cosa grandiosa! Cerco di confortarli come posso quando gli preciso l’indirizzo: via degli Angeli.

Si fa trovare nel luogo dove mi ha dato appuntamento, puntualissimo; lasciamo la macchina e proseguiamo a piedi. Oltrepassiamo una sorta di parchetto di un condominio e poco più in là, sul ciglio destro della strada, S. fa una piccola deviazione e ci ritroviamo di fronte ad una cancellata improvvisata con lamiere di amianto e un catenaccio come serratura. Entriamo e lo scenario che ci si prospetta davanti agli occhi è quanto di più surreale ci si possa immaginare: un pezzo di terra, come aperta campagna, disseminato degli oggetti più diversi che possano coesistere ragionevolmente in uno stesso spazio, buttati qua e là; e se ad un primo colpo d’occhio quello che risalta è solo immondizia gettata un po’ dovunque, girando l’angolo e avvicinandoci a “casa” di S., gli oggetti da discarica lasciano spazio a più caratteristici elementi di un arredo in stile vintage. Un tavolino in ferro battuto e ripiano in vetro con sedie in stile retrò e due lattine di birra vuote; uno specchio art deco di fronte, come ad immaginarsi la scena di chi utilizzi quello spazio esterno al container come il proprio giardino per sorseggiare un aperitivo e si guardi in quello specchio prima di uscire di casa. Il tappeto davanti all’ingresso è il sedile di un divano in pelle. Ognuna delle cose descritte è visibile solo grazie alle torce dei nostri cellulari. Una volta entrati finalmente vedo coi miei occhi le famose tendine, che coprivano una cassettiera senza ante, la torcia sul comodino, le stampelle nel piccolo ma ordinatissimo guardaroba e le coperte a coprire un letto fatto molto meglio di quanto sia capace io. S. ci mette subito a nostro agio spiegandoci come ha riparato i buchi dai quali entravano topi, come ha convinto il suo coinquilino a lasciare il cane fuori di casa almeno la notte e di come lo abbia educato a maggiore ordine e pulizia; rimaniamo stupiti quando scopriamo come abbiano trovato il modo per avere la luce. Non la rubano a nessuno: usano una luce solare, una batteria domestica che immagazzina energia solare garantendogli un’autonomia di circa un paio d’ore la sera e ci sentiamo subito tutti e quattro in imbarazzo quando capiamo che la sta sprecando tutta con noi, ma lui ci rassicura: siamo i primi ospiti che riceve e per lui è un onore. Si comporta come un ottimo padrone di casa e ci intrattiene un bel po’ raccontandoci in parte la sua vita e in parte la sua visione del mondo, fino a quando decidiamo che si è fatto tardi ed è meglio avviarci. Ma è proprio mentre stiamo andando via, mentre ripercorriamo al ritorno con maggiore sicurezza che all’andata quel pezzo di campagna, proprio prima di varcare il cancello, notiamo qualcosa che all’ingresso ci era sfuggito e che ora attira prepotentemente la nostra attenzione. Su di un cumulo di macerie al lato destro dell’ingresso c’è uno sgabello, di quelli alti; sopra lo sgabello c’è un vaso di plastica e al suo interno un cono fatto di corda dal quale sbuca con fierezza una finta orchidea. Sembra quasi un’installazione cui non riusciamo a dare un senso ma che per qualche motivo ci affascina tantissimo e quando non resistiamo più e gli chiediamo cosa sia, S. con un sorriso che difficilmente dimenticheremo ci risponde: “noi lo chiamiamo l’Accoglienza”.

Dopo un mese ha trovato lavoro ed è andato via da Roma.

Noi crediamo che nessuno debba vivere in strada, in macchina, in una roulotte, in una baracca o in un container e nemmeno, forse, in un centro di accoglienza; crediamo che alla casa abbiano diritto tutti ma quando mancano le condizioni sociali, economiche, politiche e culturali perché questo avvenga, allora mi chiedo se non sia il caso di rispettare almeno la voglia di chiamare “casa” uno spazio qualunque, dargli una forma, tanta attenzione e riempirlo di significato. Questo servizio dalle mille sfumature quel giorno mi ha insegnato che per la prima volta gli ospiti eravamo noi, a noi è stato concesso di entrare, noi abbiamo provato il disagio di non arrecare troppo disturbo, noi siamo stati quelli “accolti”.

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