Seppellire i morti sembra un’azione ovvia e scontata. È praticata fin dagli albori della civiltà e il ritrovamento di una nuova sepoltura identifica il sorgere di una particolare cultura. Tuttavia, quando nella nostra società moderna è comparso l’AIDS, la peste del XXI secolo, anche questo gesto di pietas antica e umanissima, è stato offuscato. Millenni di cultura hanno vacillato di fronte a questi nuovi malati, portatori di un morbo che poteva essere considerato il giusto castigo di Dio per una condotta di vita moralmente inaccettabile e dunque neppure degni dell’ultima misericordia, quella di una sepoltura con nome e cognome.
Anche Gesù era morto fuori delle mura della città, come un delinquente, esposto al disprezzo pubblico, in mezzo a due ladri: i vangeli lo raccontano senza reticenze e neppure fanno sconti ai discepoli che lasciano solo il loro Maestro e lo guardano morire da lontano, a distanza di sicurezza…
Il gesto pietoso della sua sepoltura compiuto dalla madre e da pochi amici, avviene in fretta e quasi di nascosto, c’è una purità rituale da rispettare, seppellire il morto può essere disdicevole o forse persino pericoloso.
Tuttavia è proprio compiendo quel gesto , proprio avvicinandosi alla morte che si comincia a riaffermare la vita, perché significa riconoscere anche nel momento estremo la dignità della persona.
“Nostra Sorella morte” la chiamava San Francesco: appassionato come era della vita, non ha temuto di considerarla una compagna di cammino, ha riconosciuto che si può “vivere” la propria morte. Non in termini eroici o di stoica indifferenza, ma nel senso di amare profondamente tutto ciò che appartiene all’uomo, perché è in esso che Dio si è rivelato e fatto conoscere.
Quando nel 1988 don Luigi di Liegro aprì la prima casa famiglia per malati di AIDS a Villa Glori, sapeva che l’unica azione possibile era, allora, accompagnarli alla morte, era cercare di vivere la morte come estrema opportunità del vivere, da cui, in extremis, può scaturire la luce della Pasqua che restituisce la speranza proprio là dove sembra negata e perduta.
Sul corpo del Cristo risorto sono ben visibili le ferite della sua passione, si possono toccare… così come si vedono e si toccano i segni che il dolore e la malattia lasciano in noi e nei nostri fratelli.
I Vangeli non raccontano come Gesù è risorto, raccontano però che cosa è rimasto dopo la sua resurrezione: una tomba vuota e una comunità di persone che, nel nome del suo amore, si ritrova a spezzare insieme il Pane della vita.
Seppellire i morti è opera di misericordia non solo perché “facciamo misericordia”, ma perché allo stesso tempo “riceviamo misericordia”: noi amiamo perché Dio ci ha amati per primo e amando ci trasformiamo ad immagine dell’amore che ci è stato donato.
Amare significa passare dalla morte alla vita e annunciare che l’amore vince la morte. Non c’è tomba che possa imprigionare il nostro amore.
Operatori e volontari delle Case Famiglia di Villa Glori