La notte in strada con il gruppo del dopocresima

Quei bravi educatoriProporre a dei ragazzi di 13-15 anni di partecipare a un servizio della Caritas, come quello chiamato SNI, che percorre di notte le strade di Roma per cercare, incontrare le persone senza dimora e provare ad offrire loro conforto, aiuto, vicinanza: sarà una buona idea? Oppure si potrebbe rivelare un’esperienza eccessiva, prematura? Qualunque educatore si porrebbe una simile domanda prima di coinvolgere “i suoi ragazzi” e lo farebbe in maniera non solo responsabile ma probabilmente anche un po’ preoccupata: il timore che un’esperienza come questa possa essere “troppo forte” esiste ed è fondato; o che essa possa non venire gestita nella maniera appropriata, anche questo è un pericolo possibile.

Tutto ciò ci era chiaramente presente in quelle serate passate a confrontarci tra noi educatori sull’opportunità di coinvolgere i ragazzi del gruppo del dopo cresima nello SNI: sentivamo l’urgenza ed il fascino di questa sfida, dall’altra il timore di non riuscire a proteggerli da… qualcosa più grande di loro, forse.

Eravamo combattuti. Se da una parte questa proposta poteva sembrare un rischio, dall’altra, sentivamo che essa avrebbe potuto smuovere qualcosa in loro: uscire fuori, andare a vedere il mondo della notte, non quello delle discoteche, dei pub, ma quello di chi sente il freddo tagliente dell’inverno in una Roma deserta, priva di piedi che camminano ma che pullula di panchine diventate posti letto e case, allo stesso tempo. Che pensieri avrebbe suscitato in loro, quali emozioni, quali gesti? Sarebbe stato utile per il loro cammino di una sempre maggiore comprensione della realtà?

In fondo, ci siamo detti, anche questa è la realtà del mondo nel quale, come educatori, dovremmo insegnare a vivere; anche questa è la realtà di un mondo di cui, come educatori, non possiamo e non dobbiamo celare l’esistenza e… l’essenza. Ma come? La nostra esperienza ci dice che i ragazzi necessitano di poche parole, di esempi significativi e soprattutto di cose concrete, di esperienze dirette: il toccare con mano, il vedere con occhi, il sentire (col cuore…). E poi? Poi c’è la libertà e la maturità della scelta o delle scelte che richiederanno tempo, elaborazioni, gestazioni. Noi possiamo solo indicare.

Così, alla fine, fugate le resistenze più perniciose, abbiamo preso il coraggio a due mani e siamo saliti tutti sul pulmino: un veicolo da 9, con 5 ragazzi adolescenti, due operatori della Casa di Cristian e due padri missionari. Ognuno aveva il suo ruolo in quel pulmino: chi guidava, chi scherzava, chi spiegava, chi faceva il caciarone, chi se stesso, l’adolescente appunto, magari anche un po’ ribelle perché “ci sta” e perché probabilmente ciò aiutava a sdrammatizzare una situazione che non si conosceva ma che sicuramente aveva già creato delle aspettative poco chiare da esprimere, in primis a sé stessi.

Mentre ci avvicinavamo al luogo della prima segnalazione ci siamo scoperti l’un l’altro ad osservarli, ripetutamente, con l’ansia e l’emozione proprie di chi sa di essere prossimo alla meta: come reagiranno, cosa diranno, cosa riporteranno di questa esperienza a casa, nel loro zaino? Spegneranno per almeno 5, 2 minuti i cellulari con quella musica che ascoltano e cantano? Avranno il tatto? La delicatezza? Rimarranno delusi, saranno infastiditi? Ma soprattutto chi saranno loro in una sera di freddo a Roma, dove non ci sono piedi che camminano ma piedi che sbucano da sotto una coltre di coperte su panchine diventate dimora?

Primo step, prima fermata del pulmino: si scende, in punta di piedi per non disturbare, per non invadere e… scoperta, stupore li pervadono, ci pervadono. Dopo che un operatore ha offerto la mano a chi sta vivendo il freddo della notte ecco fare capolino la mano di uno dei ragazzi che stringe, anche lei, la mano di quell’uomo. Ed ecco il freddo diventa per un attimo caldo, si rompe una barriera, chi sono io, chi sei tu… due mani che diventano due nomi, e ti viene da pensare che allora ne valeva la pena: «Dai! Vedi? Hai visto: era importante tentare!».

A 13 anni certamente è difficile avere piena consapevolezza della situazione patita dalle persone senza dimora ma già l’essere riusciti a portare dallo sfondo al primo piano ciò che di giorno si vede senza guardare, l’essere riusciti a capovolgere le priorità dell’attenzione mettendo a fuoco la persona cacciando le distrazioni è un modo non consueto per avvicinare condizioni tanto delicate e complesse, per la loro giovane età. E così gli incontri quella notte si sono susseguiti, gli avvicinamenti si sono trasformati gradualmente in prossimità e le espressioni sono mutate: quello che di giorno chiamavano usualmente “il barbone”, quella notte è divenuta persona, con nome, storia, bisogni, desideri, anima: “Lucia, ancora sacchi a pelo per quei signori là, non hanno nulla”.

Abbiamo distribuito sacchi a pelo, abbiamo avviato conversazioni, vero ma… cos’è accaduto davvero quella notte? Cosa abbiamo visto?

A pensarci bene potrebbe sembrare strano, quasi paradossale, eppure la notte, che solitamente rappresenta l’oscuro, l’impenetrabile, il poco visibile, è divenuta l’occasione e la condizione per poter “vedere meglio”. Ma cosa? E chi stava aprendo sempre più i suoi occhi?

Nell’onestà delle rielaborazioni condivise tra noi educatori abbiamo capito che quella notte è accaduto molto di più di un accompagnamento o di un incontro: è accaduto qualcosa di inaspettato. Quella notte, attraverso gli occhi di quei ragazzi a cui pensavamo di stare insegnando qualcosa e attraverso le mani delle persone che credevamo di andare ad aiutare, abbiamo incontrato noi stessi. In quel noi stessi che ci si parava davanti abbiamo scoperto disagio, difficoltà, dubbi: le nostre certezze circa le situazioni, le verità, le nostre possibili giuste azioni si andavano gradualmente assottigliando.

«Sai Lucia, non avevo mai pensato all’importanza di avere un letto, una casa. Quando rientriamo a casa la sera e troviamo il nostro letto caldo, dove poterci rilassare e riposare: beh, tutto questo non ha prezzo. Invece per loro che sono in mezzo alla strada, alla portata di tutti, non c’è mai pace con tutte le condizioni climatiche da affrontare». Ecco, è stato in questo passaggio e in altri simili a questo, così come nelle storie di vita che molte persone senza dimora ci hanno condiviso che abbiamo scoperto una verità su noi stessi che fino ad allora non avevamo visto: quando rientriamo a casa nostra possiamo davvero staccare, rilassarci e trovare pace? O forse non accade che una certa inquietudine, incontrata in una delle strade percorse in quella notte, ci si è attaccata addosso e adesso non sappiamo come liberarcene?

Noi, che quella notte avremmo dovuto aiutare i nostri ragazzi ad allargare gli occhi su qualcosa che credevamo di conoscere, indicando loro segnali e tracce di un percorso a noi noto, ci siamo scoperti invece impreparati davanti alle loro domande: «Ma questo ragazzo così giovane perché sta qua? Non immaginavo una cosa così. Ma abbiamo già finito?».

Qualcosa, sul momento, siamo anche riusciti ad offrire loro come spiegazione ma… una volta tornati a casa, quella notte, nel nostro letto non abbiamo trovato né caldo né pace. L’insignificanza, l’insufficienza, l’impossibilità di acquietarci: questo sì lo abbiamo trovato ad accoglierci nella nostra casa, nel nostro letto. L’inquietudine che quei ragazzi e quelle persone incontrate per strada ci hanno regalato non ci permette di accontentarci più del conforto che i ragionamenti svolti, magari nel tepore delle nostre case e dei nostri uffici, ci offrono; quell’inquietudine che ci hanno regalato sta agendo da propulsore: verso cosa?

Se inizialmente ci eravamo chiesti se i ragazzi sarebbero stati in grado di gestire l’esperienza ed il contatto in strada con le persone senza di dimora in maniera appropriata, oggi l’interrogativo si ribalta perché loro quella notte se la sono cavata egregiamente: piuttosto siamo noi, adulti, capaci di gestire adeguatamente la problematica delle quasi 8000 persone che vivono in strada nella nostra città? Ma ancor più siamo in grado di rispondere in maniera convincente e seria alla domanda dei nostri ragazzi: «Ma questo ragazzo così giovane perché sta qua?».

E l’urgenza di cercare altre vie da aprire e da indicare, altri scenari di vita possibili per tutti e per ciascuno si staglia dritta davanti a noi in tutta la sua serietà ed improcastinabilità. Pensiamo che il peso provocato da questo senso di insufficienza ed inquietudine sia giusto. E per questo dobbiamo ringraziare i nostri piccoli e grandi educatori di quella notte: loro sì che sono riusciti ad assolvere il compito proprio di ogni educatore, quello cioè di far emergere la domanda maieutica.

La questione non è più se riusciremo a proteggerli-ci da qualcosa più grande di loro-noi ma se saremo in grado di addestrarli-ci a fronteggiare e sconfiggere quel qualcosa apparentemente più grande di noi. “Poi c’è la libertà e la maturità della scelta o delle scelte che richiederanno tempo, elaborazioni, gestazioni. Loro hanno solo potuto indicare”.

Un’educatrice

PS
Le aspettative che i nostri ragazzi avevano prima di partecipare allo SNI sono state indicate sulla strada; ciò che hanno portato con loro dopo l’esperienza invece lo hanno scritto sul pulmino…

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